La questione energetica rappresenta uno dei punti critici che condiziona sia lo sviluppo economico sia la sicurezza del nostro Paese poiché oltre l’80% dei consumi viene soddisfatto attraverso le importazioni. La dipendenza dall’estero determina deflussi di capitali per circa 60 miliardi di euro all’anno penalizzando la bilancia commerciale e compromettendo le possibilità di investimento sul territorio nazionale.
Negli anni ’60 il tentativo di Enrico Mattei e Felice Ippolito di rendere l’Italia più indipendente dal punto di vista energetico e quindi più autonoma dal punto di vista politico non ebbe fortuna: Mattei, che stava cercando di sottrarsi all’influenza delle “sette sorelle”, morì in un oscuro incidente aereo, mentre Ippolito, che aveva puntato con decisione sull’energia nucleare, fu messo in carcere con delle accuse del tutto infondate.
Nel periodo attuale le fonti rinnovabili costituiscono una grande occasione per ridurre le importazioni e abbattere i prezzi dell’energia. Però, crediamo che la transizione da un sistema basato sui combustibili fossili verso un sistema alimentato in misura maggiore con le fonti rinnovabili non possa essere lasciata solo al gioco degli incentivi e all’azione delle “forze di mercato” ma debba essere guidata dal governo per evitare che si creino delle situazioni insostenibili. Se consideriamo il settore elettrico possiamo osservare che oggi in Italia i prezzi sono tra i più alti in Europa ed esiste una sovraccapacità strutturale di generazione, superiore al 30% dei consumi. Ciò è avvenuto perché negli ultimi dieci anni non c’è stata alcuna programmazione mentre venivano costruite decine di centrali a gas ad alto rendimento e, grazie ai generosi incentivi, aveva luogo una fortissima espansione dell’elettricità prodotta con le energie rinnovabili. Ma la crescita rapidissima dell’offerta si è infranta sugli scogli della recessione che ha determinato il crollo della domanda di elettricità portando fuori mercato diversi impianti a combustibili fossili. E la situazione sarebbe stata ancora più grave se fosse partito il programma nucleare propagandato dal governo di centrodestra e sponsorizzato dai grandi industriali del nostro Paese.
Il problema dell’eccesso di offerta di elettricità dunque non dovrebbe essere affrontato in modo estemporaneo mantenendo artificialmente in vita le centrali inattive con i sussidi oppure abbandonandole con i conseguenti fenomeni di inquinamento e degrado del territorio. Mario Pirani in un articolo su questo giornale ha suggerito di considerare la trasformazione e il riutilizzo degli impianti attraverso un adeguato programma di investimenti. Queste centrali, infatti, rischiano di rimanere definitivamente ferme sprecando la dotazione di infrastrutture — reti elettriche, impianti di trattamento delle acque, porti e strade — ad esse collegate. Si tratta di un problema molto delicato in quanto i costi di dismissione e di riconversione dei vecchi impianti sono consistenti e oltretutto si viene a determinare un problema di occupazione che deve essere ricollocata in altri settori.
Per questi motivi la futura espansione dell’elettricità da fonti rinnovabili dovrebbe essere inserita nell’ambito di una programmazione energetica che preveda l’evoluzione della domanda e del-l’offerta di elettricità e che metta a punto un piano di dismissione e di riconversione delle centrali termoelettriche fuori mercato, a partire da quelle più vecchie, inefficienti e inquinanti. Ovviamente il settore privato potrebbe avere un ruolo centrale sia nella stesura del piano che nel cofinanziamento degli investimenti.
Inoltre, dovremmo realizzare nuove soluzioni tecnologiche per avere un’offerta non inquinante, inesauribile, a basso costo e con contenuti tempi di ritorno degli investimenti. Pertanto, l’Italia dovrebbe elaborare in tempi brevi una politica industriale per promuovere il settore di produzione delle tecnologie rinnovabili. L’obiettivo è quello di sostenere lo sviluppo di una filiera che va dalla ricerca all’industria proprio per far sì che i generosi incentivi per le energie rinnovabili abbiano ricadute positive sulla produzione e sull’occupazione nazionale.
La Repubblica 02.01.13