Se avesse dovuto pronunciare ieri, e non ieri l’altro, il suo messaggio televisivo, Napolitano avrebbe forse aggiunto alle sette storie di italiani oppressi dalla crisi economica, scelte per il suo discorso, l’ottava. Cioè la decisione del governo indiano – attesa ma purtroppo confermata, così da segnare negativamente l’inizio dell’anno -, di annullare il contratto da 560 milioni di euro con Finmeccanica per la fornitura di dodici elicotteri Agusta Westland.
Non fosse che per la sfortunata coincidenza temporale, non ci sarebbe alcun punto di contatto tra la grave, ancorché prevista, notizia che arriva da New Delhi e gli sfoghi a cui il Capo dello Stato dal Colle ha voluto dar voce, del piccolo imprenditore che ha chiuso l’azienda, dell’esodato, del quarantenne che ha perso il lavoro e non lo ritroverà, della laureata disoccupata, dell’agricoltore che tira la cinghia, dell’impiegato pubblico che deve scegliere tra far la spesa e pagare le tasse, dell’anziano che ricorda l’epoca della ricostruzione e si domanda perché sia perduto, speriamo non definitivamente, l’entusiasmo e la voglia di fare di quegli anni.
Effettivamente niente può collegare la perdita di una grande commessa internazionale con le vicende della gente comune: se non un aspetto, che pur impropriamente le accomuna. Malgrado tutti gli sforzi che il governo ha messo in atto, e malgrado la timida inversione di tendenza dei dati macroeconomici della crisi, l’Italia e la sua classe dirigente infatti non riescono da tempo a godere, né della fiducia interna degli italiani, né di quella di partners e osservatori internazionali.
Non basta la buona fede dei singoli, si tratti del premier Letta o di alcuni dei suoi ministri; e neppure l’ansia di rinnovamento di Renzi, il più giovane leader affacciatosi sulla scena da molti anni. Né serve separare la parte propagandistica, dal legittimo diritto di critica e di denuncia delle opposizioni. La sensazione diffusa rimane quella di una barca che naviga nell’incertezza, senza accorgersi di una falla che rischia di portarla a fondo. Un Paese consapevole di quelle poche cose, delle due o tre riforme che basterebbero a rimetterlo in carreggiata. Ma che tuttavia non riesce a realizzarle, e invece di superarlo continua a girare attorno all’ostacolo.
È questo sentimento, che Il Presidente coglie quotidianamente nel contatto con i cittadini – un rapporto, sia detto per inciso, che a giudicare dai dati d’ascolto del messaggio a reti unificate non ha affatto risentito della campagna di boicottaggio lanciata da parte di centrodestra e Lega. E che ha voluto esplicitare scegliendo, tra le molte missive che riceve, sette lettere particolarmente significative. Così, per la prima volta, il discorso di auguri del Presidente agli italiani s’è trasformato nel messaggio dei cittadini alla classe politica, con un portavoce d’eccezione impersonato da Napolitano.
Sarebbe significativo, certo, che se non proprio nella prima settimana dell’anno, ma magari nel primo mese, governo e Parlamento fossero in grado di affrontare almeno una delle questioni poste dalla gente che scrive al Quirinale. Per dire, una volta e per tutte, il problema degli esodati. Oppure, almeno in tendenza, quello dell’accesso al lavoro dei giovani disoccupati. O ancora quello della riduzione, non simbolica ma effettiva, del carico fiscale a carico delle classi meno abbienti. Purtroppo non c’ è da illudersi: anche se da domani, ci si può scommettere, fioccheranno promesse pubbliche di ogni tipo e in qualsiasi ambito, finché il sistema italiano rimane bloccato non ci sono grandi possibilità che una s oluzione, anche una soltanto, sia trovata.
In sintesi, è ciò che Napolitano ha riconosciuto nella seconda parte del suo discorso, ripercorrendo con evidente amarezza gli otto mesi trascorsi dalla sua rielezione: chiesta, come ha ricordato, da un arco larghissimo di forze politiche e votata dalle Camere riunite con una maggioranza di oltre il 72 per cento, ma accompagnata purtroppo fin qui dall’inutile rete di veti reciproci degli stessi che l’avevano voluta, da un nulla di fatto in materia di riforme e dall’incapacità di realizzare quel che si deve e si sa che è necessario.
È in questo quadro sconfortante che il Presidente ha rinnovato il suo appello: a concordare e approvare al più presto la riforma elettorale, dopo la sentenza della Corte Costituzionale che ha cancellato il Porcellum; ad avviare, almeno avviare, il processo delle riforme istituzionali, dato che i tempi di una legislatura nata morta come l’attuale non consentiranno di portarle a termine; e insomma a ritrovare uno straccio d’intesa, che consenta ai partiti di uscire dall’impasse in cui si sono cacciati e ricostruire un minimo di credibilità di fronte agli elettori.
Ancora una volta Napolitano ha legato a quest’obiettivo il suo impegno e quel che resta del suo mandato. Un mandato breve, come ha confermato, ma non tale da vedersi imporre scadenze da campagne «ridicole», così le ha definite, come quelle degli ultimi mesi di Grillo e Berlusconi, dichiaratamente mirate a intimidirlo. Senza conoscere, e senza valutare, l’incognita del carattere dell’inquilino del Quirinale, e della sua testardaggine nel voler portare l’Italia fuori dalla crisi in cui s’è impantanata.
La Stampa 02.01.14