Per il presidente della Repubblica deve essere stato il discorso di fine anno più difficile. Di sicuro è apparso come il più drammatico. E non solo per le contestazioni di Grillo, di Berlusconi e della Lega, che quotidianamente usano contro il Quirinale l’arma dell’ingiuria e della delegittimazione allo scopo di colpire la legislatura e di farla crollare senza riforme. A dare drammaticità alle parole di Napolitano era soprattutto la miscela tra questa rottura istituzionale e la crescente sofferenza sociale indotta dalla crisi. Una miscela della cui pericolosità il presidente si è mostrato ben consapevole, prima leggendo le lettere dei cittadini sul lavoro che manca, sugli affanni di tante famiglie che non arrivano alla fine del mese, sui giovani derubati del loro futuro, poi arrivando a dire che, senza un cambiamento coraggioso, è la nostra stessa democrazia che rischia la «delegittimazione».
La storia ci insegna che da una crisi epocale e di sistema si può uscire ricostruendo il tessuto nazionale oppure precipitando in una catastrofe. Ma siamo fermi davanti al bivio ormai da qualche anno. Giorgio Napolitano non pensava, non voleva pronunciare questo suo ottavo discorso di fine anno. La nostra Costituzione non esclude il secondo mandato presidenziale, ma lo considera un evento assolutamente eccezionale, che mal si concilia con il carattere parlamentare del sistema. Peraltro, nel suo settennato aveva già dovuto affrontare un passaggio quanto mai pericoloso: la crisi dell’autunno 2011, quando il fallimento del governo Berlusconi aveva spinto il Paese sull’orlo del precipizio finanziario. Allora Napolitano fu costretto – anche dalle pressioni dell’Europa, degli Usa, dei mercati – ad assumersi responsabilità enormi, usando quella flessibilità dei poteri che, per fortuna, la nostra Costituzione consente nei momenti di paralisi politica.
Il presidente divenne il garante della transizione anche davanti al resto del mondo. Le elezioni politiche però vennero indette troppo tardi. Non si doveva consentire a Berlusconi, proprio a lui, di sfiduciare Monti. In ogni caso l’esito di quel voto popolare fu lo stallo politico. Mentre la crisi mordeva sempre più, seminando sfiducia, delusione, rabbia. Quando, alle presidenziali, sono caduti i nomi di Marini e Prodi siamo arrivati al collasso del sistema. Se il presidente non avesse acconsentito alla rielezione – richiesta allora da tutti i leader del centrosinistra e del centrodestra – avremmo probabilmente smarrito persino quella trama costituzionale, che vuole il Capo dello Stato garante dell’unità nazionale e non leader di uno schieramento politico. Senza quel «sacrificio» di Napolitano, il vuoto istituzionale sarebbe stato colmato con una scelta di rottura, quella sì oggettivamente di segno presidenzialista. Forse anche il Pd si sarebbe spaccato: e la Costituzione avrebbe subito un’ulteriore torsione.
Altro che presidente-monarca. Altro che semipresidenzialismo di fatto, voluto da Napolitano. Le accuse di strapotere che oggi gli vengano rivolte si fondano sull’ignoranza della Costituzione. E non a caso servono ad alimentare quell’asse anti-sistema, che ha in Grillo e in Berlusconi i suoi architravi. I poteri di indirizzo del presidente sono tanto più forti quanto più è debole la maggioranza di governo: così hanno voluto i costituenti per evitare l’infarto della democrazia parlamentare. Ma l’espansione dei poteri presidenziali resta tutta all’interno del sistema parlamentare, in qualche modo ne costituisce la garanzia estrema. I governi Monti e Letta, benché nati dall’iniziativa del presidente in assenza di una coalizione politica, sono tutti, per intero, da addebitare alla responsabilità del Parlamento. Quando Berlusconi ha deciso di far cadere Monti, Napolitano non ha avuto alcun potere di fermarlo. E così non potrebbe tenere in vita il governo Letta, se venisse meno la maggioranza in Senato. Ovviamente, ogni singolo atto del presidente è discutibile e criticabile, ma temiamo che gli attacchi pregiudiziali a Napolitano spingano verso un esito autoritario, e non già verso un ritorno alla Costituzione. Nei suoi deliri, l’altra sera Grillo ha addirittura sostenuto che bisognerebbe abolire la Corte costituzionale. Ma lo sa che anche in Francia, patria della legge come espressione sacra e inviolabile della volontà del popolo, i poteri del Conseil constitutionnel si stanno espandendo?
Il dramma dell’Italia è che il cambiamento è necessario, ma rischia di apparire impossibile. La battaglia contro le forze dello sfascio è apertissima. Nessuno può sottovalutare le conseguenze di una campagna elettorale europea con Berlusconi, Grillo e la Lega, tutti concordi con i Le Pen nel denigrare l’Unione e nell’auspicare la fine dell’euro. Napolitano ha chiesto coraggio, solidarietà e innovazione. Ha chiesto che il 2014 sia un anno di riforme. Il governo Letta è un’opportunità (anche perché nasce da una frattura con la destra populista). Ma non possiamo permetterci un altro fallimento. Se il governo giungesse a fine 2014 senza realizzare le riforme istituzionali, la sconfitta sarebbe rovinosa. Bisogna fare i conti prima, e molto bene.
Il presidente ha chiesto di provarci. Ha ricordato che la stabilità ha un dividendo economico e che oggi sarebbe un delitto sprecarlo. Il secondo mandato presidenziale sarà breve e comunque legato alle riforme necessarie: se il percorso si interrompesse, Napolitano ne trarrebbe subito le conseguenze. Il messaggio di fine anno, letto con voce roca, era comunque un messaggio battagliero: «Non mi lascerò condizionare da campagna calunniose, da ingiurie o minacce». A molti ha ricordato lo Scalfaro del «non ci sto». Il presidente che ha garantito la tenuta delle istituzioni, a fronte dei ricatti del condannato Berlusconi, non rinuncerà a fare la sua parte. Ma il fronte degli sfascisti è più ampio di ieri. E la battaglia non si vince senza una sinistra all’altezza del suo ruolo nazionale.
L’Unità 02.01.14