Nato a Genova da una famiglia di migranti italiani, ma ministro delle Finanze del Brasile, Guido Mantega è stato il primo a rompere il tabù. Nell’autunno del 2010 disse che nel mondo era in corso una “guerra valutaria”: ciascun Paese e ognuno dei grandi blocchi economici cercava di svalutare per rendere più competitive le proprie esportazioni.
Da allora la ripresa ha messo radici quasi ovunque, ma il conflitto di cui parla Mantega non è sedato. Il bilancio del 2013 mostra anzi che ha un chiaro perdente, l’euro.
La moneta unica è praticamente la sola al mondo di fronte alla quale tutte le altre divise, grandi, medie e piccole, hanno perso valore. Sull’euro si sono svalutati il dollaro americano (del 4,2%), quello canadese (dell’11%), lo yuan cinese (del 2%), per non parlare dello yen giapponese (meno 22%), del real brasiliano (meno 19,7%), del dollaro australiano (meno 20%), del rublo russo (meno 13%) o della lira turca (meno 24%). La lista continua per decine di monete, inclusi il franco svizzero (meno 1,5%), la corona norvegese (meno 15%) e la rupia indiana (meno 14,5%). La maggior parte di queste svalutazioni sono a doppia cifra e gran parte delle divise estere, incluso il biglietto verde, hanno toccato i minimi dell’anno sull’euro ieri sera. È un segno che lo smottamento è ancora in corso. Dai Paesi avanzati alle
economie emergenti, tutte le aree del pianeta stanno conquistando competitività di prezzo sui mercati globali rispetto ai prodotti venduti a partire da Eurolandia.
Una moneta forte ha anche dei vantaggi, ovviamente. L’Italia per esempio acquista da fuori dall’area a moneta unica beni e servizi per circa 216 miliardi di euro l’anno, pari a circa il 14% del Pil (dati Eurostat sul 2102). Il rafforzamento valutario del 2013 contribuisce dunque a ridurre il costo di molti beni esteri e aumenta il potere d’acquisto dei consumatori italiani. È così che una moneta forte in teoria aiuta a contenere il carovita, ma il bilancio di questo 2013 mostra che il troppo successo può produrre il suo opposto: il tasso d’inflazione nell’area euro e in Italia è oggi oltre un punto percentuale sotto al livello che la Banca centrale europea ufficialmente vuole e la stessa Bce non vede all’orizzonte un ritorno alla quota preferita, che è sotto ma vicina al 2%. Più immediato è il rischio di una spirale deflattiva che può spingere famiglie e imprese a congelare le spese in attesa di prezzi sempre più bassi in futuro.
Chi si disinteressa del tasso di cambio, sostiene che l’area euro è relativamente chiusa all’esterno perché i suoi Paesi commerciano in prevalenza fra loro. Dunque la forza dell’euro cambierebbe poco. Ma non è più vero. Eurostat, l’agenzia statistica Ue, mostra che nel 2012 l’Italia ha venduto fuori dalla zona euro beni e servizi per 231 miliardi, pari al 59% del suo export totale. È il 15% del Pil. Un euro sempre più forte erode dunque la competitività del Paese più di quanto faccia per esempio per la Spagna e la Francia, le quali piazzano in area euro circa metà del loro export. Le imprese italiane fatturano in Turchia oltre dieci miliardi l’anno, dunque per loro la svalutazione del 24% della lira turca nel 2013 incide a fondo. Considerazioni simili valgono per i dieci miliardi di vendite del made in Italy in
Russia ora che il rublo è giù del 13%, per i 19 miliardi del mercato britannico a sterlina giù del 3% o per i quasi sei miliardi di export in Giappone con lo yen giù di quasi un quarto o per i 26 miliardi di fatturato italiano negli Stati Uniti con un dollaro cronicamente debole.
Forse era inevitabile, vista l’aggressività delle altre grandi banche centrali. La Federal Reserve Usa quest’anno ha creato e immesso sui mercati qualcosa come mille miliardi di dollari. La Banca del Giappone ogni mese interviene iniettando yen per l’equivalente di circa 70 miliardi di dollari e la Banca d’Inghilterra negli ultimi anni ha comprato più di un terzo dell’enorme stock di debito pubblico di Londra. La Bce invece per adesso non fa niente di simile, ma per quanto tempo ancora potrà evitarlo? Alla Spagna, all’Italia o alla Grecia, la Germania e la stessa Bce chiedono di recuperare terreno sui mercati globali attraverso svalutazioni interne: tagli ai costi di produzione e ai salari dei lavoratori per poter vendere nel mondo a prezzi più competitivi. È una strategia che comporta costi sociali elevati, con l’aumento della disoccupazione, un lungo congelamento o il taglio degli stipendi pubblici e l’erosione dei salari privati. Ora per ò la forza dell’euro lasciato a se stesso nella guerra valutaria globale sta vanificando buona parte di questi sacrifici, o rischia di farlo presto.
L’alternativa non può essere il modello argentino, default e svalutazione brutale. Dieci anni dopo quella svolta, nel Paese sudamericano l’inflazione resta fuori controllo e la popolazione alla fame sta ancora saccheggiando i negozi. Ma la storia recente insegnerà pure qualcosa: fra il 2007 e il 2009 lo yen si impennò un terzo del valore su euro e dollaro e fu proprio allora che l’export tedesco prese il volo. Ora è l’Europa ad avere davanti un destino giapponese, più un altro rischio: il crollo della sua legittimità fra i cittadini, perché rifiutando di governare la moneta manda in fumo i sacrifici che chiede ai lavoratori più
deboli dei Paesi in crisi.
La Repubblica 28.12.13