Se ci si occupa troppo dei propri fatti privati, si toglie tempo all’impegno per cambiare il mondo.
(da “Il desiderio di essere come tutti” di Francesco Piccolo — Einaudi, 2013 — pag. 93)
Si può fare anche un’altra tv pubblica, diversa dalle risse politiche dei talk-show, dalle ambiguità dell’infotainment, dalle illusioni dei giochi a premio o dai lustrini del varietà. Una televisione che racconta “storie vere”, come quelle che ha messo in onda ieri mattina
Rai Uno nell’omonimo programma quotidiano condotto da Eleonora Daniele. Storie di straordinaria umanità che, oltre a commuovere e a far riflettere, possono promuovere valori come la solidarietà e il volontariato.
Dalla mensa della Basilica di Santa Maria degli Angeli, a Roma, che ospita ogni giorno anziani, persone sole, uomini e donne che hanno perso il lavoro e non hanno più neppure da mangiare; ai disperati che abitano in un’auto abbandonata o in una roulotte senza luce e senz’acqua; fino ai
clochard che dormono alla stazione Termini o sotto i portici, protetti solo dai cartoni e assistiti dai volontari della Croce rossa, è un popolo di “invisibili” che sfugge all’attenzione delle cronache e vive in una dimensione irreale, ai margini di un mondo indifferente.
Al tempo della crisi globale, mentre prevalgono l’egoismo sociale e l’interesse personale, questa narrazione alternativa della realtà richiama tutti a una maggiore consapevolezza e responsabilità. Ecco il servizio pubblico che fa servizio pubblico. Una tv di Stato che, insieme a produrre informazione e intrattenimento, contribuisce anche a “educare” ai buoni sentimenti, alla convivenza civile, all’accoglienza.
Troppi talk show e troppa politica, sulle reti pubbliche o private, minacciano invece di avvelenare ulteriormente il clima generale, fomentando i contrasti, le contrapposizioni, i conflitti generazionali. Alla Rai non si chiede, evidentemente, di trasformarsi in una versione televisiva di Famiglia Cristiana (anche se spesso il settimanale dei Paolini diretto da don Antonio Sciortino è un esempio di modernità) né tantomeno in una tv del cuore. Ma piuttosto di rispettare il proprio ruolo e la propria funzione istituzionale, rappresentando e magari valorizzando gli aspetti positivi di una società complessa che non è fatta solo di degrado, di cattiveria o di violenza.
Occorrerebbe un po’ più di coraggio, di slancio, di spirito costruttivo, ai piani alti di viale Mazzini. Non si tratta di occultare o rimuovere i fenomeni deteriori che inquinano purtroppo la vita collettiva, quanto di compensarli con tante storie quotidiane che — secondo la gerarchia tradizionale dell’informazione di massa — non “fanno notizia” oppure non “fanno ascolti”. E alimentare così, attraverso il servizio pubblico radiotelevisivo, quel senso di appartenenza alla comunità e quel legittimo “orgoglio nazionale” che costituiscono i presupposti per una ripresa del Paese.
Non è ragionevole, allora, riproporre nottetempo altre quattro puntate di Petrolio,
la trasmissione sul nostro patrimonio storico, artistico e culturale affidata a Duilio Giammaria, dopo il buon esito del primo test estivo a cui la sera di Santo Stefano ha fatto seguito un apprezzabile 10,35% di share. La Rai sbaglia a relegare in permanenza le sue scelte editoriali in un palinsesto sperimentale. I “tesori d’Italia”, come i personaggi e le storie d’Italia, meriterebbero una collocazione più stabile e adeguata per rinnovare una produzione ormai obsoleta e rilanciare decisamente l’offerta della tv pubblica.
Sono ancora troppe però le resistenze, le incrostazioni o le posizioni di potere, interne ed esterne, che condizionano la programmazione della Rai. Dai vassalli ai valvassori della politica, dai parenti agli amici degli amici, da certi produttori a certi signori degli appalti tv. Nell’accidentata transizione che sta percorrendo, quello che una volta si chiamava per antonomasia “il carrozzone di Stato” rischia di perdere anche le ruote per strada: fuor di metafora, è lo stesso servizio pubblico che rischia la propria sopravvivenza.
I nodi fondamentali da sciogliere o da recidere, come sanno già i lettori di questa rubrica, sono due: la governance dell’azienda, cioè il sistema di controllo, e la sua autonomia finanziaria. Da una parte, occorre liberare la Rai dalla subalternità alla politica e, dall’altra, affrancarla dalla “schiavit ù dell’audience” e quindi dalla sudditanza alla pubblicità. Senza questa “doppia rivoluzione”, non c’è futuro per la radiotelevisione pubblica.
La Repubblica 28.12.13