Stavolta non ha applaudito nessuno, a differenza di quanto accadde nell’aula di Montecitorio gremita in ogni ordine di posti il 22 aprile scorso. Giorgio Napolitano leggeva il duro discorso da Presidente rieletto e fu quasi costretto a interrompere il suo severo atto d’accusa di fronte ai continui battimani: «Il vostro applauso – disse rivolto a deputati e senatori – non induca ad alcuna autoindulgenza: non dico solo i corresponsabili del diffondersi della corruzione nelle diverse sfere della politica e dell’amministrazione, ma nemmeno i responsabili di tanti nulla di fatto nel campo delle riforme».
Torna utile, oggi, ripensare a quell’intervento. E non solo per i mancati applausi – a Parlamento semideserto – che hanno accompagnato la puntigliosa lettera con la quale il Capo dello Stato, ieri, ha richiamato governo, Camere e forze politiche a un maggior rigore in materia di decreti legge: ma anche e soprattutto perché, nel giro di pochi mesi, quel frenetico batter di mani è stato sostituito da un sentimento, un disagio, del quale naturalmente si intende il senso, ma assai meno l’origine, la ragione e – in qualche modo – perfino la legittimità.
I l disagio di cui diciamo è legato agli atti di un Capo dello Stato che starebbe allargando a dismisura il raggio della sua «supplenza», che interverrebbe troppo di frequente per riempire «vuoti» politici, legislativi (e perfino regolamentari) e che – questa è l’accusa finale – starebbe addirittura trasformando l’attuale forma repubblicana in una «monarchia costituzionale». Delle funzioni, del ruolo e delle prerogative dei Presidenti della Repubblica, sono stati riempiti volumi e volumi, dal dopoguerra a oggi: e quindi figurarsi se il tema non ha un suo interesse e una sua legittimità. Ma non è questo il punto.
Quel che appare poco comprensibile, infatti, è la circostanza che a porre simile questione – più o meno tra i denti – siano precisamente i soggetti che hanno creato e continuano a creare quei vuoti politici (e non solo politici) che il Capo dello Stato è costretto – spesso suo malgrado – a riempire. Per altro, la contestata funzione di supplenza, non di rado si risolve in iniziative di fronte alle quali le forze politiche dovrebbero – per tornare all’immagine iniziale – nuovamente applaudire. E perfino con qualche riconoscenza.
Si pensi, ad esempio, proprio all’ultimo caso in questione: il decreto salva-Roma, che il governo ha dovuto far decadere appunto per iniziativa del Quirinale. Si denuncia, infatti, l’ennesima «ingerenza» del Presidente della Repubblica: e non ci si sofferma su cosa si sarebbe abbattuto – in caso di non intervento e di conversione di quel decreto – sulle forze politiche e sul governo che l’aveva voluto. Una nuova ondata di discredito – per le regalìe, le scelte clientelari e la confusa pioggia di denari fatti cadere qua e là – avrebbe probabilmente investito il sistema: a tutto vantaggio non certo dell’esecutivo, ma di quelle forze «demagogiche, populiste e antieuropee» che pure – così spesso – vengono messe all’indice.
Perché piuttosto che denunciare l’«invadenza» del Capo dello Stato i partiti politici – di maggioranza e di opposizione – non riempiono essi quei vuoti, quegli spazi, sui quali deve poi intervenire il Quirinale? «Imperdonabile – disse in quel 22 aprile Napolitano – resta la mancata riforma della legge elettorale del 2005». È stata forse varata una nuova norma elettorale? Non risulta. «Se mi troverò di nuovo dinanzi a sordit à come quelle contro le quali ho cozzato nel passato – aggiunse il Presidente – non esiterò a trarne le conseguenze dinanzi al Paese». C’ è qualcuno che si preoccupa di evitare le possibili (perché preannunciate) dimissioni del Capo dello Stato, piuttosto che denunciarne l’invadenza? Non parrebbe.
È penoso dirlo, ma l’anno che si conclude finisce così come era cominciato: l’incapacità ad eleggere un nuovo presidente della Repubblica, due mesi per varare un governo purchessia, nessun passo avanti in materia di riforme e – anzi – il mortificante intervento della Corte Costituzionale scesa in campo a cancellare quella che c’era. È di questo che ci si dovrebbe occupare, piuttosto che lamentare supplenze (non esaltanti, ma inevitabili e certo non nuove) rispetto alle quali tante volte occorrerebbe semplicemente prender atto e perfino ringraziare…
La Stampa 28.12.13