Miracolo natalizio. Ciò che non è stato possibile per mesi, è diventato possibile nel giro di ventiquattr’ore. Tutte le persone trattenute nel centro di prima accoglienza di Lampedusa, salvo, assurdamente, i diciassette sopravvissuti al naufragio di ottobre, sono state trasferite in altri centri sulla terra ferma.
Non erano bastate le foto dei materassi gettati per terra, i resoconti giornalistici di povera gente, inclusi molti sopravvissuti del naufragio di ottobre, ammassata in condizioni disumane. La commozione dei politici nel giorno dei funerali era servita solo per consentire loro un’ennesima passerella sui telegiornali. Poi l’attenzione dei politici e dei responsabili si è spostata altrove.
Forse non sarebbe bastato neppure il video delle docce antiscabbia a chiudere una struttura che dovrebbe funzionare solo come tappa di transito veloce. Infatti, la prima reazione del ministro degli Interni è stata di scaricare la colpa esclusivamente sui gestori, non anche sul suo proprio ministero, che trattiene lì a tempo indeterminato chi arriva su quelle coste, al di fuori di ogni legge (inclusa la Bossi-Fini) e ragionevolezza, facendo finta di ignorare le condizioni in cui vivono i profughi lì ammassati e in cui opera chi ci lavora. Una cinica indifferenza che avalla l’idea che i profughi siano persone senza diritti, che possono essere trattate come animali, anzi peggio. Salvo indignarsi ipocritamente quando qualcuno denuncia e rende pubblico l’orrore.
Perché l’indignazione, questa volta, avesse un seguito pratico per i profughi c’è voluto il gesto di un politico che ha preso sul serio il proprio mandato, che non ha sofferto di amnesia, soprattutto che non si è limitato a una visita rituale di solidarietà, e neppure a denunciare, ma è andato a condividere l’intollerabile. Onore quindi a Khalid Chaouki, “nuovo cittadino” che ha preso sul serio la responsabilità di difendere le condizioni di civiltà che il nostro paese dovrebbe garantire a tutti. Speriamo solo che non debba correre a cucirsi anche lui le labbra perché gli immigrati che si trovano nei vari Cie sparsi per l’Italia cessino di essere trattenuti persino oltre i termini lunghissimi previsti dalla Bossi-Fini, senza alcun diritto, neppure quello a mantenere le proprie relazioni famigliari, alla mercé non solo di una burocrazia lentissima, ma della discrezionalità dei sorveglianti. O che qualche deputata non debba condividere la sorte delle ragazzine costrette a prostituirsi per pochi soldi nei Cie o nei Cara, per attirare l’attenzione su un fenomeno tanto noto, quanto ignorato (quando non sfruttato dagli stessi sorveglianti).
È davvero intollerabile che in Italia solo i gesti eclatanti riescano a far attivare quelli che sarebbero diritti umani e civili fondamentali, mettere in moto procedure che dovrebbero essere normali, che sono addirittura previste per legge. Una situazione che incentiva una sorta di corsa al gesto estremo, cui fa da pendant l’insofferenza, o il cinismo rassegnato, di chi assiste. Non succede solo con i migranti e i profughi. Ma nel loro caso sembra che l’eccezionalità non basti mai. Lo testimonia l’esperienza dei diciassette sopravvissuti al naufragio di Lampedusa, gli unici ancora trattenuti lì, “a disposizione dei magistrati” (che per altro operano al tribunale di Agrigento), forse per farli maledire di non essere morti anche loro il 3 ottobre.
Ora si parla di abolire la Bossi-Fini. Bene. Non vorrei tuttavia che, insieme all’indignazione a corrente alternata, questa tipica via di fuga della politica italiana — il cantiere sempre aperto delle riforme annunciate — fosse un modo per continuare a ignorare la mancata applicazione delle norme esistenti, specie di quelle a garanzia dei migranti e profughi. E continuare a chiudere gli occhi su quella che ormai è diventata un’industria dell’accoglienza, a favore di chi la fa, molto meno di chi dovrebbe beneficiarne.
La Repubblica 27.12.13