L’Italia fa schifo, il Sud sta affondando, siamo la provincia dell’impero, siamo destinati al declino. Oppure no. Ho capito questo: la mia generazione (ho 30 anni) è cresciuta dentro questi cortocircuiti. Quando non si abbandona alla disperazione (ce n’è), o peggio alla lagna (ce n’è), riesce a moltiplicare gli «oppure no» e a produrre merce rara: idee nuove. Salvatore Sanfilippo ha 36 anni, è cresciuto nella provincia della provincia dell’Impero (Agrigento, come me) e ha piazzato alcune di queste idee ai padroni dell’Impero medesimo (Yahoo, Twitter, eccetera). Ci siamo sentiti su Skype per una chiacchierata in cui sono finiti dentro: gli Usa e Campobello di Licata, Snowden e Youporn, gli smanettoni di Canicattì e quelli di Cernusco sul Naviglio.
Mi racconti com’è nata la passione per l’informatica?
«L’ho ereditata da mio padre, era un appassionato negli Anni 80. Abbiamo avuto uno dei primi home computer per cui osservandolo ho iniziato ad interessarmi anche io. A Campobello c’erano tante persone che avevano sviluppato questo “hobby”. Mi ricordo che quando ero bambino c’erano corsi di programmazione alla biblioteca comunale».
Nel mio paese l’unico computer ce l’aveva il prete e lo teneva in parrocchia.
«Sì, è stata una cosa molto particolare, credo. Pensa che alle scuole medie avevamo un’aula informatica pazzesca con un computer per ogni ragazzo. Quando mio padre mi comprò uno ZX Spectrum (rivale del Commodore 64) ho iniziato a capire un po’ di più di programmazione. E da li in poi è stato un crescendo».
Cioè gli altri volevano il motorino, e tu i computer?
«Sì, fino a prima dell’inizio della pubertà è praticamente andata così. Poi ho iniziato a volere i motorini anche io, e ho smesso con i computer. Ma era solo una pausa. Infatti quando mi sono iscritto ad Architettura a Palermo, ho ricominciato nuovamente…».
Hai fatto architettura?
«Solo un anno. Perché iniziando a programmare nuovamente, e connettendomi ad Internet mi si è aperto un mondo. Mi sono appassionato di programmazione in C e sicurezza informatica. Ho scoperto un baco dei sistemi Unix, l’ho pubblicato su Internet, e mi hanno chiamato da Milano per andare a lavorare: fine dell’Università».
Hai detto che ti occupavi di sicurezza. Il tema è ritornato d’attualità con il caso Snowden/Nsa. Che ne pensi?
«Sono convinto che per noi europei era più scontato che i governi tentassero di spiarci. Gli americani sono rimasti più colpiti. Forse è perché loro danno per scontato che il nemico è all’esterno e il governo, in teoria, è sempre tuo amico. In realtà è difficile capire il limite sottile tra garantire la sicurezza del cittadino, e spiarlo in maniera vergognosa. Comunque un problema centrale con i dati è che è molto difficile farne qualcosa di utile, quando sono tanti. E alla fine chi deve fare qualcosa che non va, ha tanti mezzi per difendersi, dalla crittografia ai pizzini. Per cui è probabile che si finisce solamente per spiare chi invece non fa nulla di clamoroso. Però nella vita di tutti i giorni funziona così: società come Google ti danno i mezzi per lavorare bene, e il problema della sicurezza dei dati rimane solo un timore inconscio».
A proposito di gestione di dati, il tuo Redis questo fa, no?
«Redis è un programma che aiuta altri programmi a gestire dati. Ad esempio Twitter usa Redis in modo da ricordarsi gli ultimi tweet di un utente, e visualizzarli immediatamente quando richiesti, rispetto a come avverrebbe altrimenti. Redis gira completamente nella memoria “volatile” del computer, la Ram, ma allo stesso modo ha un sistema per duplicare i dati sul disco. In più i dati sono messi dentro il database già nel formato in cui servono all’applicazione. Oggi è usato anche da Yahoo, Instagram, Pinterest, Craigslist, The Guardian e Tumblr. Anche da Youporn».
E come è finito nelle mani di queste compagnie?
«Internet è estremamente aperto alle novità. A questo si aggiunge che per fare delle cose all’avanguardia nella programmazione, tutto quello che serve è un computer. Bisogna anche essere abbastanza caparbi e non guardare al guadagno nel breve periodo. Ho lavorato a Redis per un anno gratuitamente, rilasciandolo come software gratuito e aperto».
Aspetta, però, per me è importante anche parlare di soldi, nessuno lo fa, e spesso si resta fregati da questo rimosso…
«La mia attività mi permette di guadagnare bene. Sinceramente con il successo che ha avuto Redis avrei potuto fare tantissimi soldi, creando una società attorno a Redis, come mi è stato più volte offerto. Ma ho deciso di tenermi in una situazione di compromesso, mi pagano bene per lavorare su Redis, ed è abbastanza per me, senza “conflitti di interesse”. Alla fine se dai abbastanza valore, le grandi società che usano il tuo prodotto vogliono pagarti perché la cosa continui in quel modo».
In Italia a furia di lavorare gratis si produce solo altro lavoro gratuito..
«Questa idea funziona fino a quando il “terreno” è meritocratico».
Cosa manca per renderlo tale?
«La meritocrazia, appunto. La fiducia del singolo nel fatto che si può riuscire. I finanziatori. Un problema enorme è la burocrazia. Sono felice di pagare le tasse perché penso che è il mio modo di contribuire ad uno stato che mi offre diverse cose, come la sanità pubblica, ma alcuni meccanismi davvero bloccano le piccole imprese nascenti».
Hai mai pensato di andartene?
«No, ma forse solo perché sono un privilegiato: posso stare nel mio Paese, che amo, mentre sono pagato da un’azienda statunitense. Poi è facile vedere solo il bello degli altri posti. L’altro giorno ho donato 50 dollari ad una programmatrice americana. Ha avuto un problema di salute e nel giro di 6 mesi era sul lastrico. Questo è disumano, e il modello europeo, per quanto forse limitato tecnologicamente, è più saggio. Non sono passati migliaia di anni di storia invano qui».
Da Milano sei tornato in Sicilia.
«In tutto sono stato fuori 6 mesi credo, l’aria di Milano mi faceva male. Quando sono tornato ho fatto delle aziende che hanno sempre dialogato con il Nord Italia. Penso che il modello per il Sud sia questo dal punto di vista dell’IT. Creare aziende che offrano servizi informatici al Nord e all’estero, tenendo i costi bassi, e la qualità alta».
Magari questa chiacchierata finisce in mano a qualche ragazzo a Canicattì o Uta o Cernusco sul Naviglio, gli vuoi dire qualcosa per chiudere?
«Che noi non abbiamo niente in meno degli altri Paesi, nonostante la crisi attuale, e che il nostro patrimonio di storia e creatività può essere risvegliato e utilizzato per competere con gli altri ai massimi livelli. Basta solo liberarsi da alcune catene culturali che ci siamo creati da soli negli ultimi decenni».
L’Unità 24.12.13