Senza l’idea di Europa, senza l’aggancio all’euro, la nostra unità nazionale molto probabilmente non avrebbe resistito alle tensioni e agli strappi degli anni Novanta. Ora invece è proprio l’Europa che rischia di diventare il detonatore della polveriera Italia, stremata dalla crisi e dal collasso istituzionale della seconda Repubblica. La campagna elettorale delle prossime europee – con Berlusconi, Grillo e la Lega che si apprestano a cavalcare l’onda anti-euro, più o meno con gli stessi argomenti dei movimenti populisti e xenofobi diffusi nel Continente – può produrre effetti devastanti. Non solo per gli equilibri di Bruxelles e Strasburgo: le parole peseranno come macigni sul Paese e la delegittimazione colpirà inesorabilmente anche gli sforzi di cambiamento delle politiche. Che segno avrà il semestre italiano di presidenza Ue se a maggio le liste euroscettiche conquisteranno da noi, per la prima volta nella storia, la maggioranza dei consensi?
Nelle classi dirigenti e nell’opinione pubblica non sembra esserci coscienza del quadro che si sta componendo e dei pericoli cui andiamo incontro come nazione. Si può reagire con un’alzata di spalle al nuovo corso leghista di Matteo Salvini, il quale ad ogni comparsata in tv ripete che la moneta unica è «un crimine contro l’umanità»? Si può considerare un vaffa tra i tanti di Grillo e Casaleggio la proposta di un referendum per uscire dall’euro? Si può trattare con Berlusconi sulle riforme costituzionali mentre lui stesso usa l’anti-europeismo come arma di ricatto contro il governo e contro il Parlamento che ne ha decretato la decadenza da senatore? Siamo diventati talmente cinici che ormai non diamo peso a ciò che si dice. Tutto sembra ridotto a tattica. Berlusconi? Vuole «soltanto» fare le elezioni politi- che insieme alle europee. Se Renzi accettasse il patto, il Cavaliere potrebbe anche ammorbidire le sue posizioni sul- le riforme e sull’Europa. Altrimenti, sarà guerra totale. Berlusconi è pronto a gareggiare con Lega e Cinquestelle negli attacchi contro l’euro, contro il presidente della Repubblica, contro le istituzioni «illegittime». E solo dei superficiali possono immaginare che tutto ciò non avrà conseguenze sul sistema, sulla società, sul senso comune, sulla fiducia dei cittadini e delle imprese. I Forconi hanno appena abbandonato le piazze: davvero qualcuno pensa che, se venisse meno la prospettiva europea, l’Italia riuscirebbe a mantenere quel minimo di coesione sociale indispensabile all’unità politica e territoriale?
Si dirà che il marcio sta in Europa, prima che da noi: le politiche deflattive, il rigore tedesco, il deficit di solidarietà e di investimenti, le tecnocrazie che sterilizzano le istituzioni democratiche, le banche che valgono più delle domande sociali e dei diritti. Anche in questi giorni l’intesa tra i governi sull’unione bancaria ha consentito un piccolo passo verso la sicurezza finanziaria, ma non si può certo dire che l’Europa sia andata incontro ai giovani senza lavoro, alle famiglie in sofferenza, ai cittadini che vedono sfiorire la qualità del modello sociale. I compromessi europei sono sempre piccoli. Mentre le domande crescono, e crescono pure in modo insopportabile le differenze all’interno dell’Europa. Se non si cambia, si muore. Proprio perché l’Europa è la migliore opportunità che abbiamo. Senza Europa è difficile pensare il futuro. È un paradosso che, mentre molti di noi vedono l’Europa come un ostacolo, in Ucraina e nei Balcani la bandiera dell’Unione viene sventolata come un simbolo di speranza.
Il punto per noi è che l’idea stessa di nazione – e persino l’ordinamento dello Stato – oggi è inseparabile dal processo europeo. Se la ribellione ai morsi e alle ingiustizie della crisi si saldasse all’antipolitica e all’antagonismo contro l’Europa, non ci sarebbe uno spazio nazionale in grado di rigenerarsi da solo. Non ci sarebbe neppure un’uscita indolore dalla moneta unica: né se dall’euro fossimo espulsi, né se dall’euro dovesse uscire la Germania. Sarebbe un dramma anzitutto sociale, con prezzi decuplicati in termini di povertà, disoccupazione, welfare e diritti violati. Del resto, l’in- dubbia crescita su scala continentale dei movimenti populisti e delle destre antieuropee non ha prodotto una politica alternativa. Al contrario, ha accentuato gli elementi di chiusura e gli errori compiuti in questi anni dai governi europei. Non ha liberato risorse, non ha accelerato il processo di integrazione politica che è mancato dopo Maastricht: la verità è che l’onda populista ci porta ancora più a destra e comprime ulteriormente il modello sociale europeo.
Il compito del Pd e della sinistra – nelle prossime elezioni europee, e poi nel semestre di presidenza – è molto difficile. L’Europa, con tutti i suoi gravissimi limiti, è parte di noi. Il suo fallimento ci taglierebbe le gambe. Ma è proprio l’europeismo a imporci oggi un cambiamento profondo dell’Unione. Non si può reagire efficacemente alla deriva euroscettica di tutte le opposizioni italiane, se non proponendo e attuando una svolta, che coinvolga il nostro governo, ma anche Bruxelles e Berlino. Romano Prodi sostiene che bisogna formare un polo con Parigi e Madrid, capace di sposta- re il baricentro del Continente. Anche questa è la battaglia. Cruciale per il decennio che abbiamo davanti. Certo, se le elezioni politiche dovessero sovrapporsi alle europee, il confronto pubblico verrebbe dirottato sulle vicende e le leadership domestiche. Ma non è probabile che ciò accada. Le europee di maggio avranno quindi un grande impatto. Saranno una prova decisiva per Renzi, per Letta, per alleati e avversari. Saranno soprattutto un test di verità sull’Italia.
L’Unità 23.12.13