È difficile interpretare in quale fase si trovi l’Italia. De Rita, nell’ultimo rapporto Censis, indica come la più grave fra le convinzioni che dominerebbero i flussi dell’opinione pubblica, la paura che il Paese si trovi sospeso sull’orlo del baratro: un improvviso ritiro dei sottoscrittori internazionali dalle aste del debito pubblico, difficoltà nei pagamenti degli stipendi e nei rapporti interbancari, accentuarsi incontrollato dei disordini politici potrebbero imprimere un precipitare agli inferi e la perdita del controllo politico e sociale. Nei momenti più bui lo sconforto e la sfiducia prevalgono, poi un dato ottimistico sulla diminuzione dello spread,
sull’aumento delle esportazioni mani-fatturiere, su un passeggero miglioramento della Borsa spingono a dar fiducia alle voci governative secondo cui il peggio sarebbe superato. Ma troppi annunci salvifici ci hanno in precedenza vaccinato.
Oggi si presenta, però, un fatto nuovo, la conquista clamorosa della direzione del Pd da parte di Matteo Renzi, i tre milioni di voti che l’hanno accompagnata con relative manifestazioni di entusiasmo — un evento ormai ben raro — il diffondersi di un ottimismo di sinistra, di cui persino la nostalgia era andata persa. Si tratta certamente di uno stato d’animo positivo di cui vanno colte le potenzialità di un Paese in cui evidentemente lo spirito politico non si è del tutto spento, anzi è pronto a rimettersi in gara. Eppur tuttavia sotto la cenere non si è spenta la brace mefitica dell’antipolitica, il lievitare dei consensi per il M5S, il riconsolidarsi della Lega, l’avvio della riedizione di Forza Italia.
Ma ciò che con più attenzione va colto è il coagularsi sotto diverse cifre di uno spirito antieuropeista, con caratteristiche pecu-liari, riassumibili in una serie di slogan contro l’euro, tutt’altro che innocui. Non bisogna, infatti, illudersi su due cose. La prima che una politica di rilancio e, quindi, di ripresa della spesa pubblica sia alle porte e non abbia fin qui decollato per il convincimento ideologico negativo di una destra testardamente inchiodata a una politica di austerità monetaria e di rientro nei limiti di bilancio. La seconda considerazione, fa invece leva su una rimozione della realtà che porta a ignorare che il domicilio dell’euro e relativi rulli è situato esclusivamente a Francoforte, spirito della realtà che dovrebbe ricondurre a buon senso i riottosi di un ripristino della moneta nazionale. L’alimentazione di questa attesa, destinata al fallimento, rischia così di generare una illusione foriera di forte malcontento. Tornerà la richiesta, che oggi unisce tutte le destre, di un referendum o di una uscita tout court dall’euro e ancora di altre formule dello stesso tipo (un euro forte del Nord e uno più leggero e agile del Sud)? Quando non per virtù magica, un reintegro immediato della lira? Questi slogan porterebbero, anche se soltanto minacciati, a conseguenze rovinose. Il populismo basato sulla facile richiesta della “riconquista della sovranità monetaria!” e, quindi, della possibilità di stampare lire per ossigenare una ripresa che l’austerità dei detentori dei torchi dell’euro ci impedisce, costituirebbe il fulcro della nuova politica internazionale antieuropea. Solo un forte ed efficace coordinamento economico e monetario, incentrato sugli organismi brussellesi, e sul nuovo governo della Merkel, profumata di spirito federale, potrebbe riportare speranza e slancio per disseccare la fioritura populista. Il tutto accompagnato da una forte ripresa della domanda.
Non sarà facile e non dimentichiamo quanti di noi, pur essendosi battuti per l’entrata nell’euro, con lo scoppio della crisi e la sua permanenza, non si sono certo pentiti, ma hanno riflettuto sull’essersi addentrati con troppa fretta e scarsa strategia cooperativa in una avventura senza precedenti priva di ammortizzatori stabilizzati. Forse troppo pessimistiche, ma non certo al vento, le parole del più grande economista del secolo scorso, Milton Friedman, premio Nobel, padre del liberismo moderno, che, richiesto negli anni ’80 sul possibile fallimento dell’euro, rispose: «Spero di sbagliarmi perché un’Europa di successo è nell’interesse sia degli europei che degli americani. Ma non vedo l’autonomia e la flessibilità dell’economia e dei salari… Finora le economie come quella italiana avevano una serie di libertà, fino a quella di lasciar muovere il tasso di cambio della moneta. Ora non avranno più quella opzione».
Naturalmente ve ne sono state altre, come la diminuzione dei tassi nella emissione di prestiti all’estero, ma in realtà vi è un solo potente dissuasore, in caso di crisi dal ripiegare sulla moneta nazionale: il costo enorme che tutta l’economia mondiale in questo caso dovrebbe sopportare. E quando il tema viene affrontato anche in puri termini di principio, la risposta è univoca: «Non si può fare!».
Un noto saggio di Barry Eichengreen (Vox, maggio 2010) spiega minuziosamente perché l’adesione all’euro sia irreversibile. Abbandonare l’euro imporrebbe lunghi preparativi che, tenuto conto della prevista svalutazione, innescherebbero la madre di tutte le crisi finanziarie. Le aziende e le famiglie sposterebbero i depositi in altre banche della zona euro provocando una corsa agli sportelli di dimensioni enormi. Gli investitori nel tentativo di andarsene creerebbero una crisi del mercato dei titoli. Un altro motivo di dissuasione dall’uscita è legato ai costi economici, all’aggiornamento o al cambio di tutti gli strumenti elettronici e contabili e, in rapida successione, a una immediata svalutazione della nuovo moneta con conseguente rivendicazione sindacale di massa e il cambio di valore di salari e stipendi. Infine i tassi di interesse del Paese uscente verrebbero immediatamente super valutati.
Si può forse immaginare che fantasiosi economisti potrebbero sbandierare immaginose soluzioni alternative. Difficile però che siano convincenti, almeno per soggetti razionali.
Resta però che l’opzione dell’uscita non sarebbe in realtà motivata da ragioni economiche o finanziarie ma da un movimento politico eversivo, più o meno di massa. Quale l’esito di un simile catastrofico mutamento dei rapporti di forza, alimentato da una fantasia populista di assai difficile contenimento? Altre volte negli anni ’20 e ’30 Paesi e regimi sono deflagrati in nome di movimenti che alla loro base tutto avevano, meno che una spinta razionale. È immaginabile che solo una forte ripresa della solidarietà politica ed economica dell’europeismo potrebbe ristabilire le basi di una ordinata ripresa dell’ordine e dello sviluppo. Allo stato delle cose è un cammino di cui non si intravede ancora la possibile rotta. Si dovrebbe, però, sapere che altro percorso non è in vista.
La Repubblica 22.12.13