Mentre in Italia la legge di stabilità si appresta a ottenere il voto di fiducia alla Camera (nonostante le critiche di Confindustria, comuni e sindacati) dagli Stati Uniti giungono segnali del tutto diversi per quanto riguarda le politiche per il rilancio dell’economia e l’uscita dalla crisi. Al di là dell’oceano, Barak Obama ha proposto di aumentare il salario minimo da 7,25 a 10,10 dollari l’ora e la grande maggioranza degli statunitensi è d’accordo con lui. Nel frattempo gli Stati della California e del Massachusets hanno già portato il salario minimo oltre i dieci dollari, la città di Washington sembra orientata ad elevarlo nelle prossime settimane a 12,50 dollari e da qualche parte si propone il livello di 15 dollari. Uno dei punti principali dell’accordo di governo in Germania è l’introduzione di un salario minimo pari a 8,50 euro non lontano da quello già esistente in Francia che, essendo pari al 62% della retribuzione media, risulta il più alto fra quelli esistenti in Europa.
Il motivo più immediato di tali decisioni sta nella volontà di fare fronte alla situazione di indigenza in cui si sono venuti a trovare milioni di lavoratori in tutti i Paesi capitalisti e di porre un limite allo sfruttamento del precariato, dilagato anche in un Paese di relativo successo quale la Germania, ma la tendenza che ha provocato la svalorizzazione del lavoro è di ben più lunga durata e risale alla rottura del rapporto tra dinamica delle retribuzioni reali e crescita della produttività. Edward Luce sul Financial Times ci ricorda che se negli ultimi trenta anni i salari avessero tenuto il passo con la produttività media del sistema economico le retribuzioni della maggioranza dei lavoratori statunitensi pari oggi a 26000 dollari l’anno, sarebbero oggi di 40000 dollari. O, per dirla con The Economist, se il salario minimo dal 1968, anno in cui fu creato, fosse aumentato in linea con la produttività, esso dovrebbe essere oggi di 21,72 e non di 7,25 dollari. Questi dati danno la misura della perdita di valore del lavoro, fenomeno generale, e spiegano perché in tutti i Paesi capitalisti la maggioranza della popolazione ritiene che il futuro sarà peggiore del passato.
C’è dunque un motivo più generale che induce ad aumentare le retribuzioni minime nella speranza che elevando il pavimento l’intera struttura delle retribuzioni aumenti ed è che tale aumento, per dirla con il Financial Times, «… inietterebbe nella anemica ripresa economica uno stimolo più che dovuto senza impegnare un dollaro dei contribuenti». E qui veniamo al punto chiave quello del rapporto tra crescita economica e distribuzione del reddito. Nella recente apologetica commemorazione di Margaret Thatcher, il sindaco di Londra, Boris Johnson, dopo avere tessuto l’elogio delle disuguaglianze, rilancia l’antico mantra per cui il problema principale è aumenta- re la dimensione della torte e non ridistribuirla. Quelli come lui non vogliono apprendere ciò che oltre un secolo di crisi economiche dovrebbe insegnarci: che la distribuzione del reddito condiziona il ritmo, la qualità e la sostenibilità della crescita economica.
Ha ragione Paul Krugman a sostenere che senza un così forte aumento delle disuguaglianze l’attuale crisi non sarebbe scoppiata: la crescita degli ultimi decenni è stata trainata dall’aumento dei consumi privati tale aumento non sarebbe stato possibile, visto che le retribuzioni, i redditi delle grande maggioranza della popolazione, stagnavano, senza l’enorme crescita dell’indebitamento delle famiglie ed è da questo eccesso di debito che è nata l’attuale crisi. Nei trenta anni gloriosi, successivi alla seconda guerra mondiale, quando le retribuzioni reali crescevano in linea con la produttività non ci sono state crisi economiche, né è aumentato il livello del debito privato e pubblico rispetto al prodotto lordo. Coloro che si ostinano a sostenere che aumentare i salari significa ridurre l’occupazione ignorano la realtà che non solo ci mostra che singoli Paesi, tipo Australia, con un salario minimo più che doppio rispetto agli Usa hanno un tasso di disoccupazione nettamente più basso, ma ci mostra che alla generale riduzione delle retribuzioni corrisponde un aumento della disoccupazione. Essi si ostinano a considerare le retribuzioni esclusivamente come un elemento del costo di produzione e non come una componente fondamentale della domanda interna senza l’aumento della quale l’economia non marcia.
Lo stimolo alla domanda interna attraverso l’aumento del deficit pubblico è una misura irrinunciabile in tempo di crisi. E non è un caso che i Paesi che lo hanno usato di più e soprattutto che di più lo hanno finanziato attraverso la banca centrale, come Usa e Inghilterra, vadano meglio. Ma non può durare all’infinito. E non è infinita neanche la capacità redistributiva del bilancio pubblico, che pure deve essere ancora usata. Se la distribuzione del reddito all’origine, cioè tra capitale e lavoro, è squilibrata la redistribuzione attraverso il bilancio dello Stato, supposto la si voglia fare, alla lunga non sarà in grado di riequilibrarla. Perciò parlare di redistribuzione non basta bisogna parlare di distribuzione cioè di ripartizione del prodotto tra capitale e lavoro. La crescita sistematica delle retribuzioni, del reddito della grande maggioranza della popolazione, è una componente insostituibile di una ripresa economica e di una crescita sostenibile.
Alla fine un paio di domande sorgono spontanee. Perché in Italia nessuno, né sindacati, né partiti, propone di introdurre per legge il salario minimo? Eppure si fa un gran parlare di precariato. Perché, visto che aumenta l’interesse per il tema distributivo, non proporre di definire una politica dei redditi di dimensione europea tale da consentire l’aumento delle retribuzioni europee in linea con la produttività nella media dell’Unione europea, tenendo conto delle differenze di competitività esistenti tra i vari Paesi.
L’Unità 20.12.13