Non che sorprenda, in verità, ciò che sta emergendo in queste ore sulla formula Stamina, uscita finalmente da un cono d’ombra. Non solo non ci sono evidenze che la terapia funzioni, come si era sempre sospettato. Ma la sua somministrazione potrebbe perfino essere pericolosa e aprire la strada al rischio di trasmissione di malattie infettive, compresa l’Hiv, in assenza di controlli delle cellule dal donatore. O, ancora, alla contaminazione del morbo della «mucca pazza», la variante umana dell’encefalopatia spongiforme bovina, che deve il suo nome ai danni devastanti che produce sul cervello.
E ora? Davanti ai fatti emersi in queste ore, c’è da chiedersi se si potrà continuare a chiamarle «compassionevoli» quelle cure, ammesse in mancanza di alternative e al di fuori del normale iter di sperimentazione. Non solo non arrestano e non fanno regredire patologie come le sindromi neurodegenerative infantili, ma il metodo Vannoni non assicura nemmeno che non si traduca in un aggravamento del male o presenti altri pericoli. Tra polemiche, vicende giudiziarie, manifestazioni di piazza, il caso Stamina – che ha attirato più volte l’attenzione della comunità scientifica internazionale sull’Italia, espresse, qualche giorno fa, in un duro editoriale di «Nature» – si guadagna un posto tutto speciale nella storia infinita, antica come la malattia, della ricerca di cure miracolose, in ogni tempo e in ogni epoca, di fronte al fallimento dei trattamenti convenzionali. Basta pensare al cancro, agli innumerevoli metodi messi in campo, che promettevano di guarire, con la stessa cura tutte le neoplasie. Ma, naturalmente, i guaritori e i dispensatori di cure del passato non avevano la capacità di mobilitazione di quelli del nostro tempo. La tremenda angoscia di coloro che hanno bambini, piccoli e piccolissimi, è un’arma potentissima.
Quei malati e i loro familiari, trafitti dal dolore, che, questi giorni, tumultuano davanti ai palazzi del potere, contro la politica e la medicina ufficiale, affidando la propria esistenza malata al metodo Stamina, si sentono all’ultima spiaggia, e non vogliono essere defraudati della speranza. Per uscire dal circolo vizioso in cui è entrato «il caso Stamina» occorrerebbe un cambio di passo e una precisa distribuzione dei ruoli. Non fanno il bene dei bambini malati i giudici che autorizzano l’uso in un paziente di cellule provenienti da altri senza considerare il pericolo di rigetto. Non fanno il bene alla scienza i politici che agiscono sotto la pressione della piazza, forte come non mai, anche in nome della libertà di cura. Pressione che porta a passare direttamente dal laboratorio ai pazienti, saltando pericolosamente la fase della sperimentazione clinica, e contro il metodo scientifico, che si basa su ipotesi che devono essere validate o falsificate, con esperimenti riproducibili. Non ci sono scorciatoie per una medicina fondata su basi etiche. Eppure, le lezioni del passato dovrebbero aver insegnato qualcosa circa le cure prive di una documentata efficacia terapeutica. Non si può pensare di tornare indietro rispetto alle conquiste della Medicina basata sull’evidenza, che ha imposto la necessità di sviluppare metodi limpidi per una ricerca scientifica in grado di assicurare risultati sempre migliori, a vantaggio dei malati e dei sani, dei politici, dei ricercatori e dei medici. Senza queste basi, la ricerca fallisce nello scopo di aiutare i malati ed i medici che devono fare tutto il possibile per alimentare la speranza, ma non pericolose illusioni.
La Stampa 19.12.13