Avere quarant’anni, cinquantacinque, settanta o ottantacinque, sembra che siano oggi solo espressioni verbali, utili ma non decisive, orientative ma non descrittive. «Ognuno ha l’età che si sente addosso», si sente anche dire spesso e se questa frase viene presa con spirito e parsimonia sembra essere quella che meglio descrive la situazione. Non stiamo parlando ovviamente di gravi patologie, e soprattutto stiamo parlando del nostro tempo, nel quale la vita si sta allungando di più di un trimestre ogni anno che passa. Molti anziani vivono così una vera e propria «età guadagnata». Con un bonus particolare per le donne, che vivono in media sei-sette anni più dei maschi. Lo conferma una recente ricerca pubblicata dalla Population and Development Review , rivista scientifica americana che ha messo in relazione l’età anagrafica con altri fattori che contribuiscono a determinare l’«età reale»: salute, tasso di disabilità, funzioni cognitive. E lo confermano anche i risultati di una ricerca pubblicata poco tempo fa sul British Medical Journa l, relativa a coppie di gemelli: dei due viveva di più quello che si sentiva (e appariva) più giovane.
Allora l’età non conta? Conta, conta, ma come un disegno potenziale, che se non viene sviluppato e portato in primo piano nemmeno si vede. Queste sono parole di speranza, ma non sono dolciastra melassa o follia consolatoria, sono un invito a viversi la vita secondo le proprie aspirazioni e le proprie aspettative; i propri sogni direi. È questa una grande nuova libertà, e anche un poco una nuova responsabilità.
Due sono le forze portanti di una giovinezza protratta: la progettualità e l’attività. Mai chiudersi gli orizzonti e sentire il proprio futuro accorciarsi. Dietro abbiamo una vita e perché non pensare di averla anche davanti? Se c’è la passione, ovviamente, e magari più passioni. In fondo è la passione che dà spessore alla nostra vita e ne determina la dimensione reale: non necessariamente una vita lunga, ma una vita piena, libera e calda, e in questo il cervello conta molto. A fronte del dilagare di consigli di tutti i tipi per invecchiare meglio, il mio motto è: «Mangiare di tutto con moderazione, fare sport senza esagerare, adoperare il cervello senza paura di esagerare».
Perché il cervello? Non lo sappiamo, ma si è osservato da più parti che il cervello deve gestire sostanze che controllano in qualche modo il procedere dei nostri anni, e anche in caso di gravi patologie neurodegenerative chi ha vissuto adoperando di più il proprio cervello sta decisamente meglio. Prima o poi capiremo perché, e ne faremo un caposaldo della nostra condotta.
Nel frattempo che fare? Non strafare in niente, ma semmai straimmaginare, se il verbo esistesse, e aspettarsi tanto dai giorni a venire e «affacciarsi» su quelli. In fondo gli anni sono fatti di giorni. Non mangiare troppo né troppo poco, bere con moderazione e non fumare, sono i punti essenziali, ma anche andare dal medico e curarsi. Non curarsi è da stupidi, non da eroi. Ascoltare i consigli del medico e farsi le analisi prescritte. Sembra ridicolo, ma molti appassiscono tristemente per non avere osservato queste elementari precauzioni, magari facendosi forti del fatto di essere sempre stati sani.
Avere buoni geni non guasta certamente, ma avere un buon rapporto con se stessi è ancora più importante. In fondo tutte le religioni hanno spinto a farsi una sorta di «esame di coscienza», in solitario o con qualche «saggio». Penso che sia fondamentale. Ogni sera guardarsi nello specchio e dire: «Puoi guardarti a testa alta? Hai fatto quello che si deve, ovviamente, ma anche quello che ti senti di fare? Hai guardato il mondo e te nel mondo? Hai pensato che se ti trascuri, psicologicamente o fisicamente, puoi procurare un inatteso dolore alle persone che ti sono più care? Hai messo in moto qualche piccolo nuovo meccanismo e hai seminato qualche seme? Ti piacerebbe che dopo morto si parlasse di te come ora vorresti che si parlasse di te? Come tu, nel tuo intimo, parli di te? Sai immaginare come chi ti conosce parlerà di te?». Così facendo anche la morte si esorcizza e diviene uno dei tanti episodi della vita. In fondo la paura della morte è la paura della (brutta) vita. È della vita e di una eventuale sua malaconduzione che si deve avere paura.
E soprattutto è importante poter dire «Ho vissuto», senza sprecare occasioni e opportunità, senza rinunciare per paura. Nessuno ci vuole più bene di chi si aspetta tanto da noi. Compresi noi stessi.
Il Corriere della Sera 18.12.13