Da un po’ di tempo a questa parte nel dibattito politico va di moda contrapporre i diritti e le tutele delle vecchie generazioni a quelli delle generazioni più giovani. Mettendo da parte gli eccessi polemici proviamo a fare qualche ragionamento di merito. Con la riforma Dini del 1995 il sistema previdenziale ha adottato il contributivo pieno per coloro che entrano nel mondo del lavoro a partire dal 1°gennaio 1996. Questa data diventa, simbolicamente, lo spartiacque tra due modalità di calcolo, retributivo e contributivo. Il primo consente di avere condizioni più favorevoli: ad esempio, la pensione erogata con il sistema retributivo dopo 40 anni di lavoro equivale all’80% della media delle retribuzioni degli ultimi 10 anni, di solito i più favorevoli sotto il profilo della busta paga. Questa modalità di calcolo è stata conquistata
nel 1969, dopo le imponenti mobilitazioni sindacali dell’epoca. Il metodo contributivo, invece, eroga una pensione calcolata sulla base dei versamenti effettuati lungo l’intero arco della vita di lavoro e, attraverso i coefficienti di trasformazione, è collegato all’andamento del Pil: un indicatore negativo, va ricordato, in questi anni di recessione economica. Di recente, Renzi ha dichiarato nel corso di un incontro con Landini, che «si tratta di pensare anche ai non garantiti, senza eliminare diritti ma dandoli a chi non li ha». Condivido e vorrei continuare la mia riflessione seguendo questa indicazione. Forse è giunto il momento di ricordare che il sistema retributivo è convissuto con il periodo della inflazione a due cifre e con la «svalutazione competitiva», che rendevano carta straccia pensioni inizialmente sostanziose. Ora siamo in un’altra situazione e, non a caso, dal 1996 é stato introdotto il metodo contributivo. Come garantire ai giovani, nella nuova situazione, un futuro pensionistico dignitoso ed adeguato? Seguendo il ragionamento di Renzi non dobbiamo toccare i diritti acquisiti: si tratta di un argomento che abbiamo sempre sostenuto, anche se negli ultimi 20 anni ci sono state numerose riforme che hanno significativamente innalzato l’età pensionistica: ma questo è avvenuto con la concertazione e assumendo il criterio della gradualità.
Invece, altra musica si è suonata con il Governo Monti. Secondo la Ragioneria Generale dello Stato, tra il 2020 ed il 2060, si risparmieranno con l’ultimo intervento sulle pensioni targato Fornero oltre 300 miliardi di euro, circa il 15% del nostro debito pubblico e la indicizzazione delle pensioni è stata sostanzialmente bloccata. Con le pensioni si è foraggiata la diminuzione del debito pubblico: oltre non si pu ò andare, anzi, è giunto il momento di restituire pensando ad interventi di correzione e di manutenzione per migliorare il sistema. Innanzitutto dovrebbe esserci l’introduzione di un criterio di flessibilità universale, che valga per le vecchie e le nuove generazioni, che cancelli in questo modo le iniquità della «riforma» Fornero. Per i giovani l’obiettivo di non avere pensioni «da poveri» si persegue affrontando il problema da più versanti. È evidente che le pensioni più ricche sono quelle sostenute da maggiori e migliori contributi: chi versa per 40 anni senza interruzioni avendo una buona retribuzione, potrà aspirare ad un risultato migliore. E qui sta il punto: le giovani generazioni approdano più tardi al lavoro, incontrano inizialmente una attività precaria che comporta basse retribuzioni e una discontinuità occupazionale. Di conseguenza, il risultato previdenziale non potrà che essere basso. É su questi punti che occorre intervenire. In primo luogo occorre abbassare l’età di ingresso all’impiego attraverso una sperimentazione di modalità di alternanza scuola-lavoro a partire dall’ultimo biennio di istruzione superiore: una normativa contenuta nel
recente Decreto del ministro Carrozza che noi abbiamo sostenuto con forza. Inoltre sarebbe necessario garantire un equo compenso per tutte le forme di impiego che non hanno a riferimento un contratto nazionale di lavoro e prevedere contributi figurativi nei momenti di disoccupazione. Queste misure pongono le basi per consentire il raggiungimento di un risultato pensionistico, per le nuove generazioni, come quello previsto nel Protocollo del 2007 sottoscritto da Governo e parti sociali: un tasso di sostituzione stipendio/pensione pari al 60%.
È giunto il momento di riflettere sull’attuale sistema previdenziale in previsione, tra vent’anni,del pensionamento delle attuali giovani generazioni che adottano integralmente, dal 1996, il «contributivo». Non c’è tempo da perdere se vogliamo sviluppare un discorso strategico e, soprattutto, se vogliamo sgombrare il campo da stupidi luoghi comuni sul nostro sistema pensionistico.
L’Unità 18..12.13