Nove contro sei, mercoledì 4 dicembre la Consulta emette una sentenza bivalente, sicché rimane oscura l’intenzione politica sommersa: da un lato pungola assemblee ignave (così finirà l’Italia se non riformano la macchina elettorale); dall’altro, dissotterra una proporzionale pura consolidando i cimiteri delle “larghe intese” (in lingua diretta, “lasciamo le cose quali sono”). Attori più o meno importanti hanno un tornaconto nell’immobilità. Identifichiamoli salendo dai piccoli con pennacchio governativo, quali sono i sedicenti postberlusconiani: l’altro ieri gli rendevano servizi declamando col cuore in mano; e nella partita elettorale maggioritaria hanno tutto da perdere fino al grado zero (vedi Italia dei Valori, Verdi, Rifondazione comunista, Comunisti italiani, Futuro e Libertà). Non era pensabile la propensione suicida al doppio turno. Infatti, scatta l’ultimatum d’una colomba ministeriale furiosa perché l’iter del ddl sulla riforma elettorale passa alla Camera dal Senato, dove dormiva sonni profondi: altolà; e fissa un termine, 15 giorni, scaduti i quali il governo cade. Stanno ancora peggio i resti d’un centro che sarebbe dovuto nascere sul tronco del governo Monti. La microgalassia vuol sopravvivere, quindi difenderà i meccanismi che frantumavano gli schieramenti parlamentari italiano (1919-21) e tedesco (1920-33), aprendo la via a due dittature.
Dai numeri bassi saltiamo alle Cinque Stelle, ora secondo partito e terzo presumibile concorrente nell’ipotetico sistema maggioritario (le eclissano centrosinistra e centrodestra). Da tempo i pentasiderei invocano le urne. Con quale regola del gioco? Stupirebbe l’assenso alla riforma; i meno forti pretendono seggi esattamente commisurati ai voti. In più la rediviva Forza Italia: le sonde l’accreditano d’un 21%, 10 punti meno del Pd; nell’ovvia coalizione recupera i fuorusciti (Nuovo Centrodestra e Fratelli d’Italia, satelliti), però ha poche chance testa a testa col Pd trascinato dal nuovo leader, anche acquisendo i superstiti leghisti. Tra i due condottieri è partita ìmpari (li separano 40 anni): non è più la primavera 2001 o 2008, quando Berlusconi suonava il piffero stregando le piazze; sconta l’età, condanne penali, gesta storte, la noia del vederselo davanti dopo vent’anni, spettacolo ormai triste; e parlano chiaro i consuntivi fallimentari (fallimento rispetto al paese: gli affari suoi fioriscono). Ora, non è da Caimano l’avventura spericolata: gli alligatori regnano in acque torpide; finché non succeda niente, il tempo sta dalla sua e logora l’avversario; quanto più ne passa, tanto meglio. L’uomo nuovo deve agire perché, costretto all’immobilità, perde i carismi, mentre lui soffia sugli umori, sfrutta malesseri collettivi, almanacca i soliti mirabilia, nella quale arte nessun Dulcamara lo eguaglia. Benvenuta quindi la stasi paludosa.
Al nuovo Pd, soggetto politico eminente, conviene l’ordalia in due turni, senonché gioca un fattore atavico. In misura ragguardevole discende dal vecchio Pci, partito-chiesa, quindi dogmi, mistica, liturgia, clero, gerarchie. Post guerra fredda riesce imperfetta la metamorfosi laica: cadono le verità dogmatiche; emergono nuovi stili, ma la disinvoltura pragmatica era carattere ereditario, motivato dalla presunta infallibilità dei vertici che dettano strategie e tattica, spesso convertendo il bianco in nero; e qualche junior resta ecclesiocrate. Nell’ultimo quarto di secolo il prototipo è un bolscevico convertito al liberismo: mai che lo sfiorino dubbi; parla ex cathedra; ghigliottina i concorrenti. E quanti disastri combina sotto la maschera d’un lieve sorriso: rimette in orbita lo sconfitto pirata plutocrate, al quale ha garantito l’impero mediatico, «patrimonio italiano»; intavola riforme i cui modelli vengono dal Venerabile Licio Gelli; abbatte Prodi, il cui posto piglia a Palazzo Chigi navigando molto male; figura tra gli affossatori del secondo governo centrosinistro, guidato dallo stesso; e sabato 21 aprile 2013 è capolavoro d’intrigo togliere al predetto (terzo omicidio morale) i 101 voti che lo porterebbero al Quirinale. Così gli oligarchi reincoronano l’uscente, prossimo alla nona decade: non s’era mai accorto della colossale anomalia berlusconiana, anzi s’adoperava nel tentativo d’acquisirgli assurde immunità, predicando “larghe intese” ossia opposizione dolce o, meglio ancora, politica subalterna. L’Olonese ha mansalva nel governo, stando cautamente fuori. Quando poi, con sbalordimento e grave dispetto dei quietisti pacificatori, passa in giudicato una condanna inflittagli, va in scena l’indecorosa manfrina della grazia. La esige sull’unghia,
motu Praesidentis e, deluso, rompe i ponti. Sul retroscena testimonia il già citato ministro nelle cui mani stanno le riforme costituzionali (mercoledì 27 novembre): «escludo ogni complotto» (id est, intese preventive ad clementiam); o che l’augusta persona covasse riserve mentali (lasciarlo alla deriva); «vero il contrario » ma B. s’è guastata la causa vituperando parlamento e governo. Sia concesso dirlo, non era dialogo edificante. Da allora risuonano discorsi truculenti. L’ultimo è: «rivoluzione se mi arrestano» (12 dicembre); e i forzaitalioti mettono mano a una legge che vieti la custodia cautelare oltre i 75 anni.
Tiriamo le somme. Nel Pd esiste un residuo oligarchico misoneista, soccombente nelle primarie ma nient’affatto rassegnato. Vogliono “larghe intese”: Letta nipote, nato democristiano, è la guida perfetta d’un angolo piatto governativo dalla destra forzaitaliota al malleabile centrosinistra, dove l’inaffondabile Bicamerista regga gli Esteri o, vacando il Colle, vi rampi. Tale disegno politico richiede un parlamento diviso, quale sarebbe se fosse rieletto su base proporzionale. Una delle innumerevoli note quirinalesche bolla il «frastuono» delle polemiche «dannatamente» elettorali, non essendovi elezioni «dietro l’angolo», e l’inconsueto avverbio segnala un nervo scoperto (11 dicembre). L’agonista fiorentino sa quali rischi corra nella stretta mortale dei tatticismi. Speriamo che li eluda, altrimenti il vivo finisce ghermito dal morto.
Finis Italiae.
La Repubblica 18.12.13