Spesso mi chiedono: qual è la prima cosa da fare per la scuola italiana? È possibile avere un’altra scuola? Cerco di approfondire, perché per desiderare un’«altra scuola» bisogna prima capire cosa sappia della scuola chi se ne auspica un’altra. E in genere ne sa poco. Molto poco. E quel poco è pieno di narrazioni falsate. Di opinioni personali derivanti dai propri ricordi, dai «bollettini di guerra» elaborati ad ogni rapporto nazionale sulle Invalsi o sui test Pisa in modo sommario e poco approfondito, o dalle complesse articolazioni dei personali rapporti con «l’insegnante di mio figlio». Credo però che tutti i cittadini debbano sapere e ogni volta, mi siedo con calma e comincio a discuterne, sempre, con chiunque. In rete, come al bar, come alla cena tra amici, come nell’azione politica, come nelle cose che scrivo. Vorrei che si capisse che la «scuola italiana» non esiste come unicum, ma esiste come una sorta di confederazione fatta di realtà e di esperienze e di razze e di persone così diverse, frammentate e varie che forse solo la Jugoslavia di Tito potrebbe rendere l’idea. E come quella è pronta a esplodere ad ogni azione governativa poco attenta. È una scuola che va dalle eccellenze mondiali del Nord Est alle disastrate realtà scolastiche della Sicilia. E anche lì, immagino che il dirigente dell’Istituto d’arte di Monreale possa bacchettarmi e ricordarmi che la scuola da lui diretta, un istituto tecnico, smentisce la vulgata dei pessimi istituti tecnici specie al Sud. E così l’Istituto alberghiero di Catania. Ma insieme a questi ci sono le 13 scuole che a Palermo i Vigili del fuoco hanno dichiarato inagibili. Ci sono i ragazzi della classe di un altro Istituto tecnico lasciati da soli senza prof e senza vigilanza per tre ore a scannarsi perché la scuola non ha i fondi per i supplenti, ci sono quelli che non hanno potuto occupare la propria scuola perché è caduto il solito cornicione dal tetto. Forse questa volta con gli auspici di genitori in apprensione. Ci sono i docenti scoraggiati e affannati che non trovano il tempo di posare manco la penna, altro che aggiornarsi, ma ci sono anche quel 20% di docenti italiani che rappresentano il gruppo più numeroso e qualificato in sede europea di sperimentazione nella didattica digitale e di condivisione metodologica. E però c’è quell’insegnante di italiano che, mi segnala la figlia di un’amica, «non ci guarda mai negli occhi» a fronte di «quella di filosofia» che ci incanta per un’ora. E poi ci sono le 8 ore trascorse a scuola dagli studenti lombardi e le 4 ore scarse passate sui banchi dai bambini siciliani e tutti là a dire che «non conta la quantità ma la qualità». Sfido la Lombardia a dimezzare il tempo scuola. Ci sono quei somari degli adulti che non sanno fare più due più due e non ci pensano che un bambino della periferia di Palermo, al di là della «qualità della didattica», fattore decisivo, lo so, ha bisogno innanzitutto di esser tolto dalla strada, di trascorrere a scuola non dico 8 ore, ma 12. Per vivere sano, prima che per imparare. Allora qual è il problema della scuola italiana? Se non la frammentazione? Se non la necessità di offrire a tutti i bambini pari opportunità di offerta formativa, anzi, offrire loro, nei casi in cui sono disgraziati per condizione e destino, magari di più? Perché a via di ripetere le frasi di Don Milani sulle fette di torta ne abbiam fatto una barzelletta mediatica mai un programma di governo. E qual è il problema della scuola italiana, se non la frammentazione di formazione dei docenti e di selezione? Jugoslavi anche noi per provenienza, formazione, selezione e professione? Chi forma i docenti? Come e a che cosa? Chi seleziona i docenti? Come e a che cosa? C’è una babele formativa e selettiva e gestionale. Eppure non sembra preoccupare nessuno. Sono tante le cose da fare per la scuola, intanto non pensare di desiderare un’altra scuola, ma pensare di fare finalmente la scuola italiana. Cercando di ottenere un’offerta uniforme ed equa, da Bolzano ad Agrigento, provincia tra le più povere d’Italia, e di mettere a sistema le mirabili eccellenze che noi abbiamo in ambito scolastico. Poi, possiamo metterci ad elencare i singoli ambiti di azione, docenti, gestione, organizzazione, strutture, valutazione e risorse… e magari lo faremo su questo giornale. Ma la prima cosa è dare ai bambini e alle bambine d’Italia pari opportunità, soprattutto a quelli poveri. Perché non è possibile che accada ancora oggi quello che raccontava il prete di Barbiana: che gli incapaci e immeritevoli nascano soprattutto tra i poveri. Lui lo vedeva, noi docenti lo vediamo. Oggi lo certificano i test Ocse Pisa. Se c’è qualcuno là fuori batta un colpo.
L’Unità 17.12.13