n questa Italia decresciuta già più che nella Grande Depressione, è ancora possibile credere all’impresa e al successo: quello che crea lavoro, conoscenza, il senso di non essere tagliati fuori dal mondo. Incredibile a dirsi nel sesto anno di crisi, in Italia è ancora possibile credere che un imprenditore riesca a beneficiare gli altri beneficiando se stesso.
Non è certo a priori che in tutto questo Moncler si confermerà. Il progetto c’è ma il titolo ieri senz’altro è stato sospinto al rialzo anche da riflessi speculativi e dalla quantità di denaro a rimasto a lungo nascosto e come paralizzato dai traumi recenti. Ma un domanda 30 volte l’offerta su Moncler contiene anche un messaggio più ampio: dopo una caduta del Pil del 9% in pochi anni, qualcosa di mai visto in tempo di pace, gli italiani credono ancora al fare impresa. Anche in aziende che partono (o ripartono) da zero o da un punto difficile. Un gruppo di professionisti italiani fra Londra e New York si messo in rete, si è dato un nome (“Action Institute”) e fra le iniziative che ha preso per aiutare il Paese ne ha lanciata una sorprendente: ha stilato una lista dei settanta innovatori d’Italia, imprenditori capaci di venire dal niente e creare qualcosa.
L’ambizione è metterli in rete, se non altro per scambiarsi consigli o modelli vincenti. La sorpresa è che dietro i nomi ormai noti di Cucinelli o Yoox nella moda, Eataly nell’alimentare o Technogym negli attrezzi di fitness, c’è una generazione. Innovatori che spesso volano sotto i radar ma dimostrano che in Italia, malgrado tutto, si può inventare, attrarre investitori e crescere in pochi anni.
Fra i settanta di “Action Institute” non mancano imprese partite anche solo pochissimi anni fa e capaci di arrivare a centinaia di milioni di fatturato. Malgrado le tasse, la burocrazia o la recessione. Nel mondo del web è il caso per esempio del gruppo Banzai, fondato da Paolo Ainio e Andrea Di Camillo nel 2008 e già arrivata a un fatturato di 130 milioni di euro nel 2012 (e centinaia di posti di lavoro) anche grazie al commercio elettronico. Ma fra gli innovatori il cui successo è pari solo alla discrezione, l’esempio di spicco è quello di Laura Buoro: vent’anni fa questa imprenditrice che non fa mai parlare di sé ha fondato a Oderzo, in provincia di Treviso, la Nice for You. Pochi ne hanno sentito parlare fuori dalla cerchia degli addetti, ma Nice è un leader globale nell’automazione domestica (dagli allarmi alla domotica avanzata), capace di passare da zero a 274 milioni di fatturato in vent’anni. Con l’indotto, sono molte migliaia di posti ricchi di capacità manifatturiera, tecnologia, ricerca. Nei vent’anni più difficili della storia economica dell’Italia unita, Laura Buoro senza frasi a effetto ha dimostrato come restare “medio-piccoli” per il made in Italy non è né un destino, né una virtù. Buoro ha affrontato la sfida di stare in Borsa (nel segmento Star), ha aperto in Cina, Stati Uniti, Turchia, Sudafrica, Medio Oriente, ha fatto acquisizioni e ora è presente in cento Paesi. A riprova che l’apertura globale non è una condanna, per lei l’80% del fatturato, con la prosperità e le competenze che porta in Italia, è nel resto del mondo.
Una promessa unica nel suo genere è invece quella di Luca Rossettini. Dottorato al Politecnico di Milano, borsa di studio a Silicon Valley finanziata per puro merito da una rete di imprenditori italiani (tramite la Fullbright Best), Rossettini ha attratto l’interesse della Nasa: con la sua impresa, la D-Orbit, sta sviluppando un dispositivo da attaccare ai satelliti per controllare e eliminare i detriti spaziali, in modo da ridurre il rischio di impatti in orbita. Poteva farlo restando a Silicon Valley, ma è rientrato e ora è a un passo dai primi contratti con grossi costruttori di satelliti in Europa e negli Stati Uniti. «Fare impresa in Italia non è facile: la burocrazia spesso non capisce le nostre esigenze e le regole sul lavoro non aiutano», dice. Ma ha notato qualcosa: «In Italia ci sono le condizioni per fare impresa, perché c’è voglia di farlo: molti mi chiamano per chiedermi come ho potuto riuscire».
È il potere dell’esempio, che a volte funziona in modo inatteso. Furio Francini, 43 anni, ha alle spalle una carriere di banchiere di primo livello a Ubs e in Mediobanca. Ma portare in Borsa Cucinelli lo ha aiutato a cambiare rotta. Ha lasciato la finanza («un mondo parassitario») per qualcosa di diverso: l’Accademia della Moda e del Costume di Roma. Era una scuola languente, fondata da sua nonna, è diventata un’impresa del settore educazione con fatturati in crescita a doppia cifra. Innovazione basata sulla tradizione. C’è chi la fa funzionare in un Paese schiacciato da tasse, inefficienza, demeritocrazia. Meglio non chiedersi, senza zavorra, cos’altro potrebbe fare.
La Repubblica 17.12.13
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La New Economy del lusso
FRANCESCO MANACORDA
La new economy del lusso spinge alle stelle i valori – come è successo ieri in piazza Affari per Moncler – e ci fa scoprire nuovi paradigmi.
Quel produttore di piumini che ieri al suo debutto si è visto attribuire un valore «monstre» di 4 miliardi di euro è il simbolo concretissimo di una rivoluzione che unisce gusto e saper fare artigianali, competenze industriali e la nuova forza di Internet.
Ha senso – è la domanda che tutti ci poniamo – far volare le azioni e valutare un’azienda oltre 20 volte il margine di profitto atteso per quest’anno? Nel mondo del lusso (ma qui forse bisogna parlare di «lusso accessibile» visti i prezzi non proibitivi) la scommessa è che abbia senso perché quello che si compra non è tanto il risultato attuale, quanto una proiezione sui prossimi anni, con la scommessa che i clienti in grado di spendere un migliaio di euro per un piumone crescano dappertutto, da Hong Kong alla pur calda Florida, e aumentino sempre di più.
Se però si guarda dietro lo scintillio del brand e il fascino indiscusso della moda, si vede che la crescita industriale e adesso lo sbarco in Borsa di Moncler sono state preparate con tempi lunghi – due anni fa un’altra offerta di azioni non si era concretizzata – e riflessioni approfondite. Attenzione estrema, ad esempio, oltre che alla qualità del prodotto, anche alla catena della distribuzione perché il prodotto deve arrivare al cliente, che ormai è un cliente globalizzato e mondiale, solo nei negozi monomarca controllati dalla stessa azienda: non è solo ciò che si compra, ma dove lo si compra e addirittura come lo si fa. E’ la stessa ricetta che da anni perseguono marchi di grande successo come Prada e Luxottica. E se non è il negozio, per comunicare e per vendere ci sarà Internet. Le nuove tecnologie, ideali proprio per i brand globali perché con un semplice click raggiungono chiunque dovunque, possono aggiungere la loro forza. Non è un caso che il leader indiscusso di questo nuovo commercio elettronico per i gruppi del lusso sia anch’essa una società italiana, partorita dalla creatività di un italiano che prima di farcela si è visto chiudere parecchie porte in faccia.
Vince il «Made in Italy», insomma, ma non è automatico che vinca tutto il «Made in Italy». Da ieri i banchieri d’affari staranno tempestando di offerte ancora più del solito, le aziende della moda non quotate perché approfittino del momento propizio per lanciarsi in Borsa. Ma non tutte avranno il metodo e le prospettive di successo di Moncler e di altri nomi che si sono quotati con ottimi risultati negli ultimi due anni. E poi bisognerà guardare anche oltre la moda, che pure è un settore importante dal punto di vista dei numeri e fortemente simbolico. Ci sono eccellenze da far crescere anche nella meccanica, nelle biotecnologie o nell’alimentare per sperare in una vera rinascita del «Made in Italy».
La Stampa 17.12.13