Un intervento particolarmente atteso, ormai in corso di definizione da parte del governo nell’ambito della legge di stabilità, è l’introduzione di un meccanismo che preveda l’automatica destinazione alla riduzione della pressione fiscale delle risorse derivanti dalla lotta all’evasione fiscale e dalla spending review. Non è la prima volta che si definisce un dispositivo del genere; la novità riguarda una più precisa definizione delle risorse oggetto di destinazione (quelle in eccesso a quanto già assorbito dalle previsioni di bilancio) e una specificazione più dettagliata della loro ripartizione, che dovrebbe rendere operativa la norma già dal prossimo anno.
È una risposta a precise richieste delle parti sociali, che tuttavia sembra non soddisfare in pieno le aspettative di chi l’ha fortemente voluta. Ci chiediamo d’altra parte se aspettative più ambiziose fossero giustificate, viste le premesse e il contesto.
L’ampiezza del consenso attorno a questa misura nasconde infatti una divergenza di visione sulla natura di questo intervento. Un primo punto di vista, sostenuto in particolar modo da Confindustria, pone l’accento sulla necessità di intervenire sulla bassa competitività dei nostri prodotti, attribuita all’elevata incidenza costo del lavoro.
Dall’altro lato, i sindacati e le associazioni del commercio sottolineano con maggiore forza la necessità di aumentare il potere d’acquisto delle famiglie a reddito medio-basso, per rilanciare la domanda di beni di consumo e quindi l’esangue domanda interna.
Si tratta, come è chiaro, di due letture molto diverse, da cui discendono scelte non facilmente conciliabili riguardo allo strumento fiscale da adottare, che comportano una diversa distribuzione dei vantaggi tra i soggetti coinvolti (non solo tra lavoratori e imprese, ma anche tra le imprese produttrici di beni soggetti alla concorrenza internazionale e quelle che producono per il mercato interno).
Difficilmente il governo poteva dunque evitare la strada del compromesso. Già parlare di riduzione della «pressione» fiscale e non soltanto di «cuneo» dichiara peraltro la volontà di non limitarsi al lavoro dipendente, accettando la tesi che il problema non sia solo la competitività ma anche la domanda interna.
Su ciascuna delle due visioni ci sarebbe peraltro di che eccepire. Il nostro costo del lavoro è elevato ma resta comunque significativamente inferiore a quello tedesco; il nostro problema di competitività è più una questione di specializzazione produttiva, di adozione delle nuove tecnologie, di investimenti per la riqualificazione produttiva, che di costo del lavoro in sé. Il lavoro risulta costoso in rapporto a quello che si produce e a come lo si produce, e su questo la riduzione delle imposte rischia di essere poco più di un sollievo temporaneo.
D’altra parte, se l’obiettivo è il rilancio della domanda interna, non è ovvio che la cura sia una riduzione delle imposte finanziate con riduzioni di spesa; sappiamo infatti che, mentre la spesa pubblica si traduce direttamente in domanda, la riduzione delle imposte si traduce solo in parte in consumi, e parte di tali consumi si rivolgono all’importazione. Resta vero che una redistribuzione verso i redditi più bassi può determinare un aumento dei consumi aggregati; ma per quello servirebbero azioni ben più incisive su redditi medio-alti e patrimoni, che tuttavia sembrano escluse anche per la pressione fiscale già molto elevata.
Insomma, nel contesto attuale la dimensione dell’intervento previsto difficilmente potrà determinare quegli effetti significativi attesi da chi chiede al governo uno shock in grado di rilanciare l’economia. A questo proposito occorre ribadire che, nell’ambito dei vincoli esistenti, difficilmente si poteva fare di più. Sappiamo che il nostro paese non ha la disponibilità dei tradizionali strumenti di rilancio della domanda: la politica monetaria è stata delegata alla Banca centrale europea, a sua volta vincolata ad un mandato rigidamente orientato al controllo dell’inflazione (mandato interpretato peraltro in senso piuttosto restrittivo). Quanto alla politica fiscale, conosciamo i termini del fiscal compact: vincoli di questo tipo sono giustificabili solo a patto che il coordinamento delle politiche fiscali preveda una gestione attiva della domanda aggregata a livello europeo, con politiche espansive nei paesi dotati di uno spazio fiscale.
La decisione del governo di vincolarsi a destinare risorse alla riduzione della pressione fiscale è importante. Tuttavia, senza una modifica del contesto di politica economica, difficilmente potrà dare i frutti attesi.
L’Unità 15.12.13