E adesso? Che succede dopo il ciclone toscano, che non è il fild di Pieraccioni ma quel 70% che Matteo Renzi si è portato a casa dopo le primarie? Oggi a Milano, tanto per cominciare, il sindaco di Firenze diventerà ufficialmente il segretario del partito che guida il governo e la maggioranza che lo sostiene. Ma gli effetti dello tsunami già si vedono, a cominciare dal twitter con cui Letta venerdì ha annunciato in diretta dal consiglio dei ministri che il finanziamento pubblico sarebbe stato abolito per decreto.
O come la legge elettorale che dopo anni di promesse sembra improvvisamente uscita da quel gattopardismo che ha bloccato nei fatti il varo di qualunque riforma: annunciare di tutto per non cambiare mai nulla.
La robusta investitura che gli elettori del Pd (e non solo quelli) hanno dato al nuovo segretario, sembra dunque aver riacceso il motore della politica. Ma attribuire questi movimenti, come è stato fatto, all’ingresso sulla scena del nuovo leader sarebbe un errore. Il merito di Renzi sta certamente nell’aver saputo scaldare il cuore, e le matite elettorali, di chi è andato a votare. Ma la sua forza, in questo momento, deriva soprattutto dall’ampio risultato con cui ha vinto domenica scorsa e, più in generale, dalla grande risposta del popolo dei gazebo. Nell’Italia dell’antipolitica e dei forconi, dei vaffa-day di un comico e dei proclami golpisti di un condannato, il fatto che tre milioni di persone, a dicembre, si siano messe in fila per votare su un tavolino all’aperto è un fatto addirittura destabilizzante. Capace di spingere una politica apatica e pigra a cambiare passo, prima ancora che verso. La preoccupazione, infatti, è che la rabbia e la delusione, oramai parte integrante del tessuto politico di questo Paese (dal leghismo al grillismo passando per il berlusconismo) si possano trasformare, non nella fortuna di un capo o di un guru, ma in quel concreto e collettivo progetto di cambiamento che si chiama partito.
A spaventare, dunque, non è la vittoria di un «nuovo leader», ma il rapporto nuovo tra un leader emergente e un popolo di cittadini delusi e stufi che stanno cercando, con il voto, una soluzione politica ai loro problemi. Il vero timore è che quando la gente tornerà a votare, scelga il partito del cambiamento anziché quello delle pro- messe impossibili (un milione di posti di lavoro, ricordate?) o dell’insulto a raffica.
È questa la responsabilità, tremenda ma unica, che il Partito democratico a guida Renzi si trova ad affrontare in questo momento. Ne sarà all’altezza? Non ci vorrà molto per capirlo, ma intanto è bene mettere a fuoco alcuni punti.
Il primo. Matteo Renzi conosce bene il linguaggio dei segni: non quelli dell’improbabile traduttore salito sul palco dei grandi durante il tributo mondiale a Mandela, ma quelli che la politica usa per inviare
messaggi all’opinione pubblica. Le riunioni alle sette del mattino servono a dire che il nuovo sindaco lavorerà molto; leggere i messaggi sul telefonino durante l’intervento in tv significa essere di un’altra generazione così come rimanere a Firenze significa stare lontano dai «palazzi» del potere come l’abbiamo conosciuto finora. Il limite, ovviamente, è che i segni e i messaggi rassicurano e informano ma non cambia- no il mondo, soprattutto quello politico. Prendendo la guida del Pd, il nuovo segretario dovrà unire il linguaggio dei segni (suo innegabile punto di forza) alla vecchia ma concreta arte della politica fatta di programmi, scelte, compromessi, ma soprattutto risultati.
È singolare da questo punto di vista notare come il ciclone Renzi abbia portato nel mondo dei segni lo stesso governo, a cominciare dal twitter di Letta e dalla frenesia di bruciare sullo scatto il «concorrente» annunciando prima di lui la decisione di abolire il finanziamento pubblico ai partiti. Peccato che il nuovo decreto, in termini di risultati, rischi di peggiorare la situazione anziché risolverla. Ma è evidente che dal punto di vista dell’immagine, dei segni appunto, il premier ha raccolto la sfida. Sarebbe tuttavia auspicabile che la gara non fosse tra chi è il più innovatore e il più veloce del reame, ma tra chi porta o propone le soluzioni più efficaci.
Secondo punto. La decisione di affidare la presidenza a Cuperlo è stata una scelta efficace che completa il percorso di crescita del Partito democratico e lo strumento stesso delle primarie. Come avviene da tempo negli Stati Uniti i veleni, gli sgambetti e le polemiche della campagna interna per eleggere il candidato alla presidenza finiscono nel giorno dello scrutinio: da quello successivo inizia un percorso di collaborazione.
Anche questo al momento non è che un segno e ci vorrà un tempo per vedere se la nomina a presidente consentirà a Gianni Cuperlo di avere un ruolo attivo nella vita e nelle scelte del partito. Ma dopo il Pd di «seconda generazione» che abbiamo visto in tutta evidenza nel confronto dei tre candidati su Sky, si tratta di messaggio che va nell’auspicio formulato da Prodi di unire vinti e vincitori.
Terzo punto. La scelta di restare a Palazzo Vecchio gli consente di proteggere la sua immagine di aspirante «sindaco d’Italia» in attesa che Letta, prima o poi, lasci libera la poltrona di Palazzo Chigi. Il pericolo ovviamente è che per guidare bene il partito (cosa non facile) il sindaco non riesca a fare altrettanto con il Comune. E che questioni puramente locali (dall’asfalto ai rifiuti ai viali alberati) finiscano per avere ricadute nazionali. Renzi dovrà scegliere entro fine mese se ricandidarsi alle elezioni comunali che si terranno il prossimo aprile. Ora che la battaglia congressuale è vinta il segretario-sindaco dovrebbe forse evitare di presentarsi, nell’interesse del Pd e della sua stessa città. Perché una cosa andrebbe evitata con cura: cadere a Roma per una buca di Firenze.
L’Unità 15.12.13