E’ difficile guardare dentro a una protesta caotica, somma di rabbie disparate. Ma alcuni focolai da dove si grida contro «i politici che rubano i soldi delle nostre tasse» hanno una sorprendente caratteristica in comune: nascono dentro categorie ben assuefatte a ricevere denaro pubblico.
Una frangia ribelle di autotrasportatori anima la protesta dei «forconi»: nell’ultimo decennio il settore ha ricevuto a vario titolo sussidi per circa 500 milioni di euro l’anno. Due settimane fa, Genova era stata bloccata dagli autoferrotranvieri contrari a una inesistente «privatizzazione», quando nel trasporto locale fino a tre quarti dei costi sono coperti con denaro del contribuente.
La crisi esaspera; la rabbia spinge a schierarsi dietro i più determinati a battersi. Il guaio è che, nel crescente dissesto del sistema italiano, i più determinati spesso hanno esperienza nello sfruttarne i benefici. Poi per ricucire tutto si inveisce contro Equitalia, che ha vessato a torto parecchie persone perbene, ma tra i cui nemici gli evasori è probabile siano in maggioranza.
E’ una protesta che guarda al passato, già tenta di riassumere il Censis; anzi è un passato che si rivolta contro sé stesso. Nelle sessioni di bilancio parlamentari come di fronte ai consigli comunali da anni prevalgono, a svantaggio degli elettori, gruppi di interesse piccoli e compatti, capaci non soltanto di gestire pacchetti di voti ma di bloccare il Paese con le loro agitazioni.
Ora scontenti di ogni tipo sono tentati di mettersi al loro traino nelle piazze, con effetti paradossali. Possono alcuni autotrasportatori, insoddisfatti dei 330 milioni di specifiche agevolazioni tributarie per il 2014 già ottenuti dalle associazioni di categoria, ergersi a simbolo del malcontento antifisco di tutti? Forse si tratta solo della speranza che almeno loro riescano ad ottenere qualcosa.
Nel trasporto cittadino invece è normale che si spenda denaro pubblico, perché il mezzo collettivo è un risparmio per tutti; ma in altri Paesi lo Stato copre una parte inferiore dei costi, circa metà, e i servizi funzionano meglio. La «privatizzazione» sarebbe in realtà l’ingresso di altri operatori pubblici, come Trenitalia, Deutsche Bahn (Stato tedesco), Ratp (Stato francese), non legati – a differenza dei sindaci – all’immediato tornaconto elettorale.
Insomma il Paese per non poterne più rischia rimedi peggiori del male: ulteriori aumenti della spesa pubblica oppure delle agevolazioni fiscali mirate qui o là, in un do ut des imbarbarito tra piazza e politica. Mentre, ad esempio, la vita del camionista migliorerebbe facendo rispettare la legge sulle strade, limiti di velocità, carichi, orari, reprimendo le intermediazioni più o meno malavitose, evitando che il lavoro nero prevalga sull’impresa in regola.
Vediamo l’esito estremo di una politica che ha cercato di immischiarsi in tutto, mancando invece al dovere di far funzionare le strutture basilari dello Stato. Il sospetto della corruzione, in più casi fondato, dilaga fino a diventare un pretesto invocando il quale chiunque può sottrarsi alla legge (quanti romani salgono ora in autobus senza pagare giustificandosi con lo scandalo dei biglietti falsi?).
L’unica via è ritracciare in modo trasparente il confine tra ciò che lo Stato fa e non fa. Una parte della responsabilità deve ritornare ai cittadini: se un servizio comunale è gestito male, perché non lasciarlo organizzare in proprio a associazioni di luogo o di categoria? Ridurre i costi della politica e revisionare la spesa pubblica da cima a fondo sono le due parti inseparabili di un compito urgentissimo: ridurre l’uso clientelare dello Stato. Purché non sia troppo tardi.