Gli Anni Settanta sono finiti domenica sera, sono stati archiviati dal maggiore partito della sinistra italiana e dai suoi elettori. La notizia è significativa perché solo lì poteva accadere, come solo lì potranno essere ridisegnati i rapporti tra la politica e il sindacato in Italia.
Nel 1992 Bill Clinton venne eletto presidente degli Stati Uniti, il primo a non essersi formato durante la Seconda Guerra Mondiale come tutti i suoi predecessori e come i suoi sfidanti in quell’elezione (Bush padre) e quattro anni dopo (Bob Dole). Tra i suoi predecessori la stessa rottura era stata fatta da John Kennedy, primo presidente del Novecento a non essere nato nell’Ottocento. In entrambi i casi ci fu un cambio di retorica e di riferimenti culturali che aiutarono l’America a cambiare rotta.
Oggi abbiamo un segretario del Partito democratico che è andato in prima elementare quando erano già cominciati gli Anni Ottanta e un presidente del Consiglio che in quel decennio ha fatto il liceo.
Di quel periodo si è già parlato ampiamente, dei riferimenti, delle mode e della cultura che si portano dietro, ma quello che colpisce ora è che nessuno dei due protagonisti del confronto sul governo, sul suo futuro e sulla legge elettorale si sia formato negli Anni Settanta, abbia partecipato a quella stagione di dibattito, abbia potuto militare nei movimenti di quel periodo o anche semplicemente votare comunista. Non è questa l’occasione per dare un giudizio di merito, ma penso che sia notevole che una tradizione formatasi in quel tempo sia stata superata con il voto determinante di cittadini la cui età anagrafica, provenienza sociale e geografica parlava invece proprio quella lingua.
Non è successo qualcosa contro, anche se i toni del Renzi rottamatore dello scorso anno andavano in quella direzione, ma qualcosa dentro. E’ dentro il mondo della sinistra che è emerso lo sfinimento per una storia che si era avviluppata su se stessa e che non aveva più alcuna spinta propulsiva. Da troppo tempo la sinistra italiana era chiusa in difesa, incapace di connotarsi con proposte innovative presa com’era a definirsi in contrapposizione: contro i cambiamenti nella scuola, nell’università, nella sanità, della Costituzione, nel mondo del lavoro, ma soprattutto legando la sua identità all’antiberlusconismo.
Tutto ciò era privo di ossigeno, incapace di costruire speranza, di rimettere in circolo idee coraggiose. Troppi dibattiti sono stati fatti in questi ultimi anni senza tenere conto della realtà in cui viviamo, senza preoccuparsi di dare risposte chiare ai bisogni e alle urgenze di oggi, ma con la testa girata all’indietro cercando le soluzioni in prassi e tradizioni vecchie di mezzo secolo.
Una classe dirigente che sembrava inamovibile è stata messa da parte nell’ultimo anno e più nettamente in questo fine settimana. E le conseguenze saranno molte e definiranno il futuro del nostro Paese. Prima di tutto cadrà uno degli alibi della paralisi che porta molti italiani a disimpegnarsi o a cercare vie di fuga, quello che qui nulla cambia. Oggi abbiamo il Parlamento più giovane e con più donne nella storia d’Italia, adesso di una nuova generazione sono anche i leader.
Non c’è più la giustificazione maestra, chi è giovane da domani non potrà più denunciare lo strapotere dei vecchi, anche perché il terremoto della crisi sta spazzando via intere classi dirigenti, basta guardare cosa è successo nella Lega o nel centrodestra, dove Berlusconi cerca di sopravvivere ma si allarga il fronte di chi si affranca. Perfino nell’economia e nella finanza sono crollati santuari che a lungo erano parsi granitici e intoccabili.
Di certo i problemi di domani sono sempre gli stessi di ieri, la mancanza di lavoro e di prospettive, lo sbilanciamento delle tutele in favore di chi un posto ce l’ha e la lentezza di reazione e risposta. Non sappiamo se i nuovi protagonisti saranno migliori, perché essere giovani non significa automaticamente essere più bravi e di certo non significa essere più preparati o saggi – e la data di nascita come unico merito può giocare brutti scherzi -, ma sappiamo che potrebbero essere diversi, più in sintonia con la società in cui viviamo e con le sue richieste.
Chi prende il timone oggi deve guardarsi da tre mali che ci affliggono da troppo tempo: il cinismo, il conservatorismo e quel ritornello micidiale del «Non si può fare». Così come abbiamo fatto finora ci ha portato nella palude in cui viviamo, è tempo di provare ad andare in altre direzioni, di scardinare convinzioni consolidate e di assumersi qualche rischio con coraggio e fantasia.
C’è da augurarsi che dalle generazioni precedenti, i nostri nuovi leader non ereditino il vizio della sfida continua, che il duello Letta-Renzi non ricalchi i passi di quello decennale tra D’Alema e Veltroni, non perché non siano sane le differenze e il confronto delle idee, ma perché non sarebbe male smettere di farsi del male.
Molti oggi dicono che Renzi è arrivato troppo tardi, che il cambiamento andava fatto prima, che se è successo adesso è solo merito dell’anagrafe, ma a me viene in mente una frase che Papa Francesco ripeteva a chi doveva subire insieme a lui veti e ostracismi: «Il tempo vince sempre sullo spazio».
E’ un bel messaggio di fede, ma quando arriva il tempo giusto e si è riusciti anche a conquistare lo spazio allora comincia la partita più complicata: dimostrare di essere all’altezza.
La Stampa 10.12.13