Qualcuno, forse, obietterà che io sono un marxista, ed è possibile. Non credo però che si possano comprendere la “sorpresa” delle primarie di domenica e il successo di Matteo Renzi se non si parte da qui: dalla crisi profondissima che devasta da anni ormai l’Italia e dai caratteri peculiari che essa ha assunto. Si tratta di una crisi che ha toccato, peggiorandole, le condizioni materiali di larga parte della popolazione italiana; ma non si è fermata a questo, pur fondamentale, livello.
È una crisi che è risalita al piano complesso e delicatissimo delle identità individuali, dei valori intorno ai quali ciascuno costruisce se stesso e si proietta nell’avvenire, progettando la proprio vita e quella delle persone più vicine. Lo ha fatto dissolvendo, progressivamente, l’idea stessa di futuro, la speranza di poter vivere una vita decente, autonoma, libera, colpendo allo stesso modo – e qui sta un elemento di novità – classi subalterne e classi proprietarie: «capitale» e «lavoro», avrebbe detto una volta un marxista.
Le cronache sono piene di operai che salgono sulle gru perché si sentono senza rappresentanza e di titolari di azienda che decidono, per disperazione, di togliersi la vita perché non trovano più una banca disposta a continuare a finanziarli e restano oppressi – e vinti – da responsabilità che non riescono a sostenere. Vengono meno, per gli uni e per gli altri, progetti e prospettive di vita, mentre il presente decade in una quotidianità triste, infelice, dolorosa, chiusa in un cerchio di solitudine. Sono i temi su cui si è fermato l’ultimo rapporto del Censis.
Se la politica ha un senso per il vivere dell’uomo, dovrebbe intervenire in situazioni come queste, cercando di muovere tutte le leve necessarie per cercare di limitare queste sofferenze e ristabilire un rapporto con la vita là dove è più necessario. Ma la politica, in questi anni, si è chiusa dentro se stessa, senza capire quello che stava fermentando nel fondo del Paese; si è messa da un’altra parte. Mentre la crisi ha continuato a incidere nella carne della gente, serrata dentro le sue regole, la politica ha perso contatto con l’esistenza degli individui, delle persone affidandosi a parole-totem sideralmente distanti da quanto accade nella vita quotidiana degli italiani. «Stabilità», «stato di necessità», «vincoli europei». Parole che un senso certamente lo hanno, ma che diventano insopportabili quando prescindono dalla vita delle persone, da un progetto per il futuro: allora diventano suoni vuoti, provenienti da un altro universo, distantissimo ed estraneo. Con le conseguenze che si possono constatare: l’adesione all’euro, che pure era stata ottenuta con forte consenso popolare, è diventata per un numero sempre maggiore di italiani una sorta di incubo di cui liberarsi al più presto. Questa è la situazione: ne è scaturito, prima un distacco e un disprezzo per la politica, poi, in modo più radicale, un rancore e un risentimento sociale che ha contribuito a disgregare i tradizionali blocchi politici, sociali e anche elettorali, generando la formazione di nuovi soggetti che si sono fatti interpreti di questi atteggiamenti e che, progressivamente, hanno alzato il tiro della loro azione fino ad attaccare le cariche supreme della Repubblica. Per definire questi processi, si è scelto di usare, specie a sinistra, il termine – ambiguo, generico e riduttivo – di «populismo», credendo di aver così risolto il problema, senza interrogarsi sulle loro ragioni, ed anzi mettendo in una zona d’ombra coloro che in quelle posizioni si riconoscono, oltre che sul piano elettorale, su quello culturale, ideale e, verrebbe da dire, antropologico. Stanno qui le ragioni del successo di Grillo, con cui non si sono mai fatti effettivamente i conti; ma, ad interrogarlo bene, quel movimento ci dice una cosa importante che è esplosa in piena luce anche nelle primarie di domenica. Gli italiani, di cui è di moda parlare male, sono feriti, attraversati da timore, paura e anche dal risentimento ma non sono rassegnati e tanto meno lo sono quanto più sentono sulla loro pelle il peso della crisi. Vogliono, chiedono che questa situazione muti, pretendono un cambiamento, e sono ormai disposti a farlo anche in modo spiccio, come si è visto ieri con il movimento dei «forconi».
In questo contesto, in questa Italia, sono ancora tanti quelli pronti a mettersi in fila davanti a un gazebo quando sentono un uomo politico che, rompendo i ponti con il passato, parla di futuro, alzando gli occhi dal presente all’avvenire, e dica di essere pronto a scrivere, finalmente, un libro nuovo: in ultima analisi, questo è il significato, e la sostanza, delle primarie di domenica e del successo di Renzi. La forza, e l’intelligenza, del sindaco di Firenze sta nell’aver intercettato questo enorme bisogno di cambiamento e di democrazia e nell’aver cominciato a diffondere un vocabolario imperniato su parole come «speranza», «possibilità», «alternativa» e non su quelle in circolo da troppo tempo: «necessità», «stabilità», «vincoli europei»…
Si può essere d’accordo su quello che dice, o sentirsi lontani dalla sua apologia della «nuova generazione». Ma è questo nuovo vocabolario che Renzi sta diffondendo, ed importante che sia stato ascoltato per almeno due ragioni: in primo luogo, vuol dire che è ancora possibile, per il Pd, intercettare la profonda domanda di cambiamento che nonostante tutte le delusioni di questi mesi, attraversa la società italiana; in secondo luogo, significa che si può cercare di dare a questa esigenza di cambiamento una risposta in chiave riformatrice, costituendo una alternativa politica effettiva al Movimento 5 Stelle e bloccando le derive di carattere autoritario che sono immanenti alla leadership di quel partito. Esse, però, diventano possibili, e sarebbe bene non dimenticarlo, proprio quando la politica si serra dentro se stessa, provocando ,per contrasto, la resistenza e anche la ribellione dei cittadini, fino a mettere a rischio la stessa democrazia.
Ma credo che abbia ragione Renzi: è assai difficile che una occasione di questo tipo si ripresenti; essa può essere però soddisfatta ad alcune condizioni tutt’altro che semplici: far nascere, finalmente, il Pd; utilizzare tutte le energie che servono per una impresa di questo spessore, come ha raccomandato saggiamente Prodi. «Ora che hai Sparta, abbine cura», recita un adagio di Erasmo: spero che Renzi se ne ricordi, e lo applichi.
L’Unità 10.12.13