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“Aborto, indietro tutta Troppi obiettori, «194» inapplicata”, di Roberto Rossi

Racconta Andrea Cataldi: «Era martedì e io ero a letto con una tonsillite. In soggiorno mia moglie, alla diciottesima settimana di gravidanza cerca di tenere a bada il nostro primogenito Daniele non le concede tregua (…) Nella frenesia si fa largo il trillo di un telefono che non avremmo voluto sentire». Simona alza una cornetta «che non avrebbe dovuto alzare». Dall’altro capo l’ospedale di Ascoli Piceno, la città dove vivono, con i risultati dell’amniocentesi: «Dovremmo parlare con voi». E arriva «il buio, all’improvviso». In pochi minuti raggiungono la struttura. La tonsillite di Andrea è una «questione già vecchia». «Trisomia 13, sindrome di Patau» c’è scritto nella cartella. Un caso rarissimo, uno su diecimila. Chi ne è affetto nasce deforme e non vive più di tre mesi. «Incompatibile con la vita» dicono all’ospedale, «incompatibile con la vita» pensano i genitori sconvolti. «Piano piano, quasi bisbigliando, ci viene illustrato l’unico scenario plausibile, proprio quello più impensato, proprio quello che mai avremmo preso in considerazione»: l’aborto.
«Quella parola si fa fatica a pronunciarla, persino il personale medico accenna, ammicca, ricorre agli acronimi: Ivg, Itg». Figurarsi poi quando devono «confessare che: “noi qui queste cose non le facciamo, siamo obiettori”». Se si vuole ci sono altre strutture. Ancona, San Severino Marche o Pesaro. «Ma ad Ancona la lista d’attesa è lunga» e più si aspetta più diventa complicato, pericoloso. La scelta cade su San Severino Marche, due ore di auto. Eppure la legge, la «194», ideata 35 anni fa per regolare la proceduta di aborto, dovrebbe obbligare gli ospedali dove esiste un reparto di ostetricia e ginecologia, come quello di Ascoli, a eseguire interruzioni di gravidanza dopo i primi novanta giorni. L’articolo 9, che regola il diritto all’obiezione di coscienza, lo dice chiaramente quando riporta che «gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti ad assicurare l’espletamento delle procedure previste…».
FOTOGRAFIA
Ma se la legge lo recita, in Italia in pochi la applicano. Per capire quanti, visto che il ministero della Salute non fornisce un elenco aggiornato degli ospedali nei quali siano operanti i reparti di ginecologia che garantiscano l’aborto terapeutico (dopo i primi 90 giorni), e dato che l’Istat non fornisce questo tipo di informazioni, trincerandosi dietro un illusorio «segreto statistico», la Laiga (Libera associazione ginecologi per l’applicazione della 194) ha fatto una sua personale ricerca. «Ospedale per ospedale» ci dice la dottoressa Anna Pompili. Non tutti, naturalmente, ma una fetta talmente larga di strutture da rendere lo studio un prezioso documento. I risultati si fermano all’aprile di quest’anno, ma da allora si può immaginare che poco sia cambiato, in meglio.
La fotografia è riassunta nelle tabelle a fianco ma il responso è netto: nel nostro Paese la «194» è spesso carta straccia. Sommersa da una dilagante obiezione di coscienza, spesso piegata a logiche che nulla hanno a che fare con un reale convincimento interiore, e da una conseguente e ben più grave obiezione di struttura. Una realtà che il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, fa finta di non vedere fissando il numero di obiettori a una cifra che balla, per ogni regione, intorno al 70%. Ma si tratta di una media semplice, fuorviante. In certe realtà l’applicazione della 194 è complicata.
Nel Lazio, ad esempio, l’unica regione nella quale l’indagine è completa, su un numero totale di 391 ginecologi strutturati nei reparti solo 33 non obiettori eseguono l’interruzione di gravidanza volontaria. Neanche uno su dieci. Non che da altre parti vada meglio. In Sardegna negli ospedali Civili di Bosa e di Ozieri, sono quasi tutti obiettori. In Campania solo il 16% dei ginecologi è non obiettore, in Calabria la percentuale si abbassa anche di più (sfiorando appena il solo il 7%).
Ma anche al nord si trovano delle realtà piuttosto complesse.
All’ospedale di Bergamo sono obiettori 20 ostetrici-ginecologi su 27, 32 anestesisti su 100 e 52 membri del personale sanitario non medico su 125. A Seriate, sempre in Lombardia, su 33 ostetrici-ginecologi 21 sono obiettori. L’en plein lo fa il presidio di Treviglio: 14 ginecologi e 22 anestesisti. Tutti obiettori. Ma ci sono, come ha denunciato il Pd locale, anche i casi di Montichiari, in provincia di Brescia, di Cuggiono, presidio dell’ospedale di Legnano, di Iseo, che dipende dall’ospedale di Chiari, di Sondalo e di Chiavenna, distaccati dell’ospedale della Valtellina e Valchiavenna. Quante interruzioni si sono fatte? Zero. In totale, ha calcolato la Laiga, su 441 strutture italiane sentite, solo poco più del 10% garantiscono l’aborto terapeutico. Molti pazienti sono così costretti a spostarsi in un altro ospedale. Come succedeva a Caserta, dove nella Clinica S. Anna, convenzionata con la Regione e autorizzata ad eseguire interruzioni di gravidanza, nel 2012 si sono presentate 1633 donne. Di cui solo il 30% residenti in città o in provincia. Il resto, sette donne su dieci, proveniva da altre zone: Napoli (il 50% delle pazienti) o Frosinone e Latina. Ma questo accadeva fino all’agosto di questo anno. Avendo già esaurito il budget a disposizione, la clinica S. Anna non effettua più aborti.
Se la regione o la città più vicina rappresentano la prima opzione, alle volte si sceglie anche di andarsene all’estero. In Gran Bretagna, ad esempio. Con quasi ottocento sterline molte cliniche praticano l’interruzione terapeutica. Nel paese (secondo i dati della Uk Abortion Statistics relative al 2012) la presenza delle italiane (oltre un centinaio) è seconda solo a quella delle irlandesi. Tenendo a mente, però, che per le leggi di Dublino, l’aborto è illegale. Fino a qualche anno fa anche la Svizzera era gettonata, ma come ci spiega il dottor André Seidenberg dell’Università di Zurigo «l’anno scorso nella mia clinica è arrivata solo una donna italiana». Meglio allora la Spagna, o la Slovenia. Come ha fatto Anna, anni 37: «Sono partita senza la certezza di abortire. Una volta lì mi hanno sottoposta a una visita con ecografia, un colloquio con genetista e alla fine una commissione medica ha deciso se potevo procedere o meno. Io mi sono trovata molto bene, personale medico molto disponibile e scrupoloso».
RESISTENZA
Se spesso si decide di andarsene, altre volte invece ci attrezza per resistere. Alessandra fa parte di un piccolo ma agguerrito collettivo nato a Jesi (nelle Marche). È composto da una decina di donne (età media 33 anni) e ha adottato un nome che è un programma: «Collettivo Vialibera194». L’idea di formare un gruppo in difesa della legge che regola l’aborto ha preso corpo nel gennaio del 2013. «A Jesi – spiega in una mail il Collettivo – con l’obiezione degli ultimi ginecologi, nel luglio del 2012, non è stato più possibile accedere al servizio di interruzione di gravidanza. Una situazione che abbiamo ritenuto gravissima e insostenibile visto che si tratta di una prestazione garantita dal sistema sanitario nazionale».
Da qui l’idea di formare un gruppo di difesa della 194. Attraverso incontri, dibattiti e la creazione di un apposito blog, il Collettivo si è impegnato nel creare una rete di sostegno per l’applicazione della legge nelle Marche. E da maggio fino a settembre, ha raccolto oltre quattromila firme, messe nero su bianco in una petizione con la quale si chiede il ripristino della legalità non solo nella zona di Jesi e Fabriano, ma nell’intera regione.
In questa loro battaglia il Collettivo non è solo.
Tra i co-promotori compaiono altri 58 soggetti, tra partiti politici locali, associazioni e piccole istituzioni. Il problema è che queste firme sono pronte ma nessuno vuole riceverle. «Stiamo attendendo ancora da parte dell’Assessore alla Sanità della Regione Marche, Almerino Mezzolani, un appuntamento, più volte rimandato, per la consegna della petizione». Nel frattempo nell’ospedale di Jesi il servizio è stato ripristinato solo parzialmente con un numero di interventi (otto in un mese) eseguiti da una ginecologa che con cadenza settimanale fa la spola tra Jesi e Fabriano.
Dunque, in Italia c’è una legge che dopo 35 anni è praticamente disattesa. E che, ormai, in pochi reclamano. Anche perché l’argomento spacca le maggioranze politiche. Come è successo in Toscana lo scorso 2 ottobre quando, in Consiglio regionale, la maggioranza di centro sinistra si è divisa (compreso il Pd) su una mozione, primo firmatario il capogruppo Fds-Verdi Monica Sgherri, che impegnava, tra l’altro, la Giunta toscana a «emanare atti che prevedano con effetto vincolante per tutte le strutture dove si pratica l’interruzione volontaria di gravidanza per assicurare la piena applicazione della legge 194, e di istituire elenchi di medici obiettori e non obiettori». Il documento era stato sottoscritto da vari consiglieri di maggioranza, specialmente donne. La mozione fu respinta, per un solo voto di scarto, anche per colpa delle numerose assenze in aula e i voti contrari di alcuni consiglieri Pd (di area ex Margherita), che non hanno seguito il resto del proprio gruppo ed hanno votato contro la mozione insieme all’opposizione.
Di legge 194, dunque, meglio non parlarne. Racconta ancora Andrea Cataldi in una lettera recapitata anche al Tribunale del malato di Ancona: «Simona mi stringeva come se fossi l’unica sua speranza, assisto al parto, ed al raschiamento che ne segue. Vedo nascere mio figlio Francesco e lo vedo morire. Se non fosse stato per un’unica mezz’ora» nella quale hanno ricevuto assistenza medica, «in pratica l’interruzione di gravidanza l’avremmo dovuta gestire autonomamente, nella più totale solitudine di una stanzetta le cui pareti incombono ancora sui ricordi. Poi tutto finisce e ci chiediamo di dimenticare, dobbiamo solo dimenticare. Ma si può?»

l’Unità 05.12.13

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«Ministro Lorenzin, quei dati sono anomali», di Carlo Flamigni

Tra i miei ricordi di scuola c’è la storia di Margite, un misterioso personaggio (appare brevemente nell’Alcibiade minore), il quale, dice il testo, «pollà episteto, kakòs dè episteto panta», sapeva molte cose ma le sapeva tutte male. Mi viene sempre in mente Margite quando leggo le dichiarazioni dei nostri ministri della Salute, costretti a impegnarsi in una serie infinita di problemi, molto complessi e molto diversi l’uno dall’altro, della maggioranza dei quali sono del tutto ignari (come potrebbe essere diversamente?) cosa che li ha costretti a fidarsi di un consulente, scelto da loro o imposto da qualcuno al quale non si può dir di no, tenendo ogni volta le dita incrociate: il motto dei nostri ministri è, ma è cosa nota a tutti, «speriamo che Dio me la mandi buona». Questa volta Dio non l’ha mandata buona al ministro Lorenzin, che pure meriti di brava cattolica li dovrebbe avere, le cui dichiarazioni sull’attuazione della Legge 194 (rilasciate nel settembre scorso) nel 2011 e nel 2012 temo proprio che non potrebbero essere utilizzate come buon esempio di razionalità e di buon senso. Dunque il ministro Lorenzin, qualche mese fa, ha apprezzato come tutti noi il fatto che le interruzioni di gravidanza continuino a diminuire, ha aggiunto qualcosa anche sugli aborti delle nuove cittadine il cui numero, ha detto, è elevato «con tendenza alla diminuzione» e poi ha aggiunto che «i dati della relazione indicano che relativamente all’obiezione di coscienza e all’accesso ai servizi la legge ha avuto complessivamente un’applicazione efficace». Nello stesso comunicato stampa, un po’ più avanti, si legge poi che «i numeri complessivi degli obiettori di coscienza sono congrui al numero complessivo degli interventi e eventuali difficoltà sembrano derivare da una distribuzione ineguale del personale tra le strutture sanitarie all’interno di ciascuna regione». Burocratichese, ma comprensibile.
La Laiga (associazione che raccoglie i ginecologi non obiettori) non è proprio d’accordo con queste affermazioni e fa osservare che non tengono conto del fatto che in Italia l’obiezione di coscienza è diventata in realtà una obiezione di struttura, che in molti ospedali i servizi che dovrebbero provvedere alle interruzioni di gravidanza non esistono a causa del grande numero di obiettori, cosa che costringe molte donne a cercare una soluzione ai loro problemi altrove (il che significa emigrare nelle regioni nelle quali i servizi funzionano) o rivolgersi a chi pratica aborti clandestinamente, o addirittura emigrare come era abitudine fare prima del 1978. Oltre a ciò il signor ministro non ha tenuto conto del fatto che i ginecologi che operano negli ospedali che sono privi del servizio in questione non hanno alcun bisogno di sollevare obiezione di coscienza e questo significa che il numero totale di obiettori è ancora più alto di quello scritto sugli appunti dell’onorevole Lorenzin: c’è da chiedersi a questo punto a quanto in realtà corrisponda l’88,4% di medici obiettori della Campania. Quanto a questi obiettori, io credo che il ministro non possa non sapere che solo una parte di loro appartiene alla categoria delle brave persone che interrogano la propria coscienza e ne seguono i dettami, e molti altri sono invece persone di moralità per lo meno discutibile, interessate solo alla propria convenienza e al proprio interesse.
Forse converrebbe che il signor ministro, prima di parlare ancora di obiezione di coscienza, leggesse il codicillo di dissenso che segue il documento del Cnb del 2012, senza curarsi troppo del fatto che l’ho scritto io, ci troverà pareri di illustri studiosi di diritto che sono d’accordo con le mie critiche. Se poi ha ancora il tempo per leggere qualche libro interessante, compri «La scintilla di Caino», l’ultimo saggio pubblicato da Carlo Augusto Viano, uno dei maggiori filosofi del nostro tempo, che a proposito dei medici antiabortisti scrive: «In questo modo l’obiezione di coscienza, da strumento per esercitare il diritto di sottrarsi a una imposizione è diventata un modo per imporre agli altri le proprie scelte impedendo il godimento di un diritto sancito dalla legge».
SULLA RETE
Mi chiedo poi se sia umanamente possibile che al signor ministro non sia passato nemmeno per l’anticamera del cervello che qualcosa di poco chiaro, nei dati che riguardano la richiesta di interruzione di gravidanza delle nostre ragazze più giovani e delle nostre nuove cittadine, quelle che il ministro chiama «straniere», in effetti c’è. Le ragazze che non hanno ancora superato i vent’anni hanno un tasso di abortività pari a 6,7 (2011) – 6,4 (2012), che si confronta piuttosto male con i dati relativi alle coetanee francesi (15,2), inglesi (20) e spagnole (13,7), e si confronta bene solo con i dati che arrivano dalla Germania e dalla Svizzera: solo che in questi due Paesi le ragazze ricevono una educazione sessuale (e da noi no), fanno uso di mezzi contraccettivi efficaci ( e da noi no) e si dicono molto interessate alla prevenzione delle gravidanze indesiderate ( e da noi no). E allora, come spiega il signor ministro, questa strana anomalia? Provo a dare un suggerimento: vada su Internet e veda un po’ cosa succede se interroga il web su termini come «Ru 486 online», o «pillola abortiva» o «Mifegyne» (ma poi le verranno nuove idee viaggiando in rete): scoprirà quanto è facile trovare solidarietà e aiuto concreto ( e anche moltissime fregature) e come le pillole abortive si trovano, basta pagarle, arrivano dalle fonti più impensate. Bisogna dunque accettare il fatto che se il Ministero continua a ignorare l’educazione sessuale e a privare le giovani donne dell’aiuto dei consultori, le ragazze si arrangiano: e siccome c’è certamente una percentuale di queste interruzioni che non ha un esito del tutto favorevole e che costringe le ragazze a sottoporsi a un raschiamento, chieda ai suoi esperti di controllare se gli aborti spontanei non sono per caso aumentati di numero, e se è così calcoli che quell’aumento rappresenta circa il 4-5% degli aborti clandestini nei quali sono stati utilizzati farmaci abortigeni.
Temo che per quanto riguarda le nuove cittadine il problema sia ancora più complicato, perché molte di loro usano le prostaglandine che comprano in farmacia (con la scusa di curarsi il mal di stomaco) con ricette firmate dai nostri medici. Ora potrebbe essere interessante controllare chi firma queste ricette, verificare quante di queste donne finiscono in ospedale per gli effetti collaterali del farmaco e dare anche un’occhiata alle differenti etnie, non sarà che qualcuna di esse non figura nell’elenco di quelle che vengono ad abortire nei nostri ospedali? Perché se è così allora vuol dire che alcune di esse (ad esempio, quella cinese) si sono costruite i loro ospedali personali.
Concludo. Secondo me il ministro dovrebbe scegliersi un altro esperto e mandare l’attuale «nei ruzzoli», come si dice dalle mie parti. Se vuole un consiglio, eviti di sceglierne uno che ha scritto libri per dimostrare che l’Ru 486 è una pillola mortale o che ha sostenuto con grande sicumera che la legge va bene così e non ci sono problemi da risolvere per quanto riguarda la sua applicazione. Perché, signor ministro, non è vero.

L’Unità 05.12.13