La vicenda dell’Imu diventa sempre più simile al nodo gordiano di Alessandro Magno. Cerco di sintetizzare i momenti salienti dell’ingarbugliamento:
1) la prima rata, dapprima sospesa, è stata definitivamente eliminata, ma la seconda è ancora viva e vigile e la legge di stabilità non si è occupata del problema.
2) I Comuni, che devono ancora varare il bilancio 2013, possono quindi mettere a bilancio tra le entrate la seconda rata, e poiché hanno la facoltà di variare in giù (in teoria) o in su l’aliquota del due per mille, hanno un incentivo a portarla sui livelli massimi (sei per mille), incentivo a cui molti sindaci non hanno resistito;
3) l’incentivo deriva dal fatto che, anche se formalmente, cioè a legislazione vigente, la seconda rata è ancora in piedi, è ben noto l’impegno politico del governo alla sua eliminazione;
4) ovviamente l’eliminazione della seconda rata, essendo una decisione politica a livello statale, comporta la necessità del Tesoro di rimborsare i Comuni della mancata entrata;
5) Comuni i quali hanno tempo fino al 9 dicembre di fissare l’aliquota, e, sembra, è sufficiente che venga apposta nel sito del Comune, e non comunicata all’Agenzia delle Entrate;
6) A via XX Settembre nasce logicamente la preoccupazione di dover reperire risorse ulteriori, rispetto a quelle stimate, in seguito al movimento verso il sei per mille da parte dei Comuni;
7) Da qui una prima reazione: «no, il rimborso ve lo diamo sulla base dell’aliquota dell’anno scorso». Ma di fronte alla protesta dei Comuni interessati, seconda reazione: «va bene, allora una quota (prima il 50%, ora il 40%) della differenza tra la maggiore aliquota fissata dal Comune ed il quattro per mille dovrà essere versata dai contribuenti»;
8) Ma forse non è finita, perché questa quota potrebbe essere un acconto da recuperare con la Tasi, cioè la tassa sui servizi indivisibili, in modo da non creare un altro casus belli nel governo.
Il peccato originario sta ovviamente nell’accordo politico; a questo punto vestendo i panni del grande macedone, provo a tagliare il nodo così:
a) diamo per scontata l’abolizione della prima rata; invece la seconda rata verrà regolarmente versata, con due detrazioni: una prima pari alla metà della detrazione esistente (comprensiva dei figli a carico), ed una seconda, nuova, pari ad una percentuale del valore immobiliare (ad esempio l’uno per mille), con un tetto massimo a 300 euro;
b) dal valore immobiliare si detrae la metà del mutuo immobiliare eventualmente gravante sulla casa;
c) si considera prima casa anche quella nella quale il contribuente non ha la residenza, se è l’unica casa posseduta nel Comune;
d) I valori immobiliari, invece di essere calcolati sulla rendita catastale, vengono recepiti da quelli dell’Osservatorio immobiliare della ex Agenzia del Territorio, diminuiti di una certa percentuale (ad esempio il 15%).
Queste misure mi sembrano tali da coniugare l’aspetto di equità con quello dell’autonomia fiscale del Comuni. In breve, la ragione di introdurre una detrazione in percentuale (con un tetto massimo)- punto a)- ha lo scopo di correggere il fenomeno di detrazioni in somma fissa che hanno fatto sì che, sia con l’Ici che ancor più con l’Imu, la percentuale di case esenti fosse molto alta nei piccoli Comuni e molto bassa nei grandi, mentre invece una sano principio del federalismo fiscale richiede che la percentuale di contribuenti residenti e votanti nei Comuni si mantenga entro un range ristretto. Poiché –punto b)- i mutui insistono sulla casa con ipoteca, è giusto che un’imposta reale ne tenga conto. Il punto c) evita l’imposta ostacoli la mobilità delle persone, ed infine il punto d) è volto a correggere le sperequazioni, molto forti, tra valori derivanti dalla rendita catastale e valori di mercato.
In questo modo si potrebbe sistemare questa vicenda che, agli occhi di uno straniero, è difficilmente comprensibile. E ricavarne anche qualche indicazione utile per la futura tassazione degli immobili.
L’Unità 03.12.13