Sono operai segreti, immaginiao. Non sono schedati dall’Inps, non hanno tessere sindacali. Non votano. Ma vivono tra di noi, nel cuore della progressista Toscana. Sono morti all’alba di ieri, carbonizzati, in mezzo alle fiamme dentro la fabbrica dove lavoravano e dormivano. Casa e lavoro. Nessuno lo sapeva? Nessuno li conosceva? Nemmeno il padrone del capannone che con tutta probabilità lo aveva dato in affitto? E i vicini? Agivano come quei tedeschi che nell’ultima guerra mondiale sostenevano di non saper nulla di ciò che si compiva nel lager accanto casa? Certo qui, a Prato, non c’erano le camere a gas, però c’era un cumulo indegno d’illegalità, c’erano schiere di schiavi moderni. Lo ha scoperto solo l’incendio divampato all’alba. Loro, gli operai cinesi, non avevano nemmeno il numero di telefono dei vigili del fuoco, oppure avevano paura di alzare un velo sulla loro triste realtà. I vigili li ha chiamati un passante che ha visto innalzarsi l’enorme nuvola di fumo nero. Una nuvola di morte, mentre loro si aggiravano, qualcuno ancora in pigiama, tra le pareti di cartongesso, materiale facilmente infiammabile.
Ha ragione Valeria Fedeli, vicepresidente del Senato, parlamentare del Pd e già dirigente della Cgil, quando chiede di agire subito «monitorando le situazioni d’illegalità, di sfruttamento e agendo sull’assenza di controlli». E ha ragione la Cgil di Prato quando parla di «tragedia annunciata» che vede «persone in condizioni di estrema debolezza, perchè ai margini della legalità e quindi in una situazione tale da non poter ribellarsi».
È vero: quei lavoratori carbonizzati non potevano ribellarsi prima, ma poteva ribellarsi la gente intorno. Perché tutti lo sapevano. Lo sapeva anche la brava cronista del Sole 24 ore Silvia Pieraccini che il 12 agosto del 2012 scriveva, parlando del luogo dove oggi si è levato l’incendio: «Qui, dove fino a dieci anni fa c’erano le più belle fabbriche di tessuti e filati del distretto, oggi regnano decine e decine di aziende cinesi di pronto moda che sfornano abiti e magliette a prezzi stracciati, possibili solo perché dietro quelle produzioni – che possono fregiarsi dell’etichetta made in Italy – c’è un sistema organizzato di illegalità (lavorativa e fiscale) da far invidia ad Al Capone». Tanto si è detto e scritto su questa area del nostro Paese, dove c’era un’industria italiana fiorente in gran parte spazzata via dalla globalizzazione. Nella sola zona della tragedia, il Macrolotto 1, lavoravano, sempre secondo 24 Ore, 38 mila persone con un fatturato di quasi cinque miliardi di euro. Mentre ora a Prato sono arrivate quattromila ditte cinesi che impiegano 30mila connazionali. Escono da questi capannoni, simili a quello incendiato ieri, circa un milione di capi al giorno. Mentre il tessuto proviene dalla Cina. Una vicenda narrata in modo appassionato da Edoardo Nesi nei suoi libri. Il più importante di questi testi,«Storia della mia gente», ha vinto il premio Strega nel 2011. È una tormentata descrizione delle vicissitudini di una famiglia imprenditoriale tessile, a cui Nesi appartiene. Tra denunce e invettive sulle responsabilità di chi non ha cercato di impedire il fallimento di tante aziende e di tanti posti di lavoro l’autore individua anche tecnocrati ed economisti. Tra questi il noto professor Francesco Giavazzi «forse il più acerrimo sostenitore italiano dell’infinita bontà della globalizzazione», scrive, «colui che più di ogni altro nei suoi secchi articoli, puntuali come la morte, sprezzava l’incapacità di grandissima parte dell’industria italiana di adattarsi alle nuove regole di mercato…».
Era lo sfogo in un imprenditore che si sentiva solo, descrivendo con amarezza il tramonto dell’industria tessile pratese. Anche se – professor Giavazzi a parte – indagava poco sulle responsabilità imprenditoriali nel non saper imboccare le vie del cambiamento, dell’innovazione, degli investimenti, nonché della chiamata in causa di un ruolo governativo adeguato alla crisi. Spesso, come altri hanno accusato, molti imprenditori (non Nesi) avevano scelto la strada più facile degli affitti pagati da cinesi. Avevano scelto la rendita invece del rischio del profitto. Una strada apparentemente comoda che ha trovato seguaci in tutto il mondo.
Ora almeno su quel rogo di carne umana, di carne operaia, nel centro di Prato, dovrebbe nascere una nuova coscienza. Non basta commuoversi. E nemmeno sognare privatizzazioni infinite, senza lacci e lacciuoli. Sarebbe necessario uno Stato che sostenesse gli sforzi produttivi di lavoratori e imprenditori. Anche se su questo punto, pure a sinistra, molti si scandalizzano e predicano il «lasciar fare». Cosicché se qualcuno, anche nei preamboli del congresso Pd, osa tentare un discorso serio sul ruolo dell’intervento pubblico, non per confondere affari e politica, ma per imitare le scelte di Obama tese a impedire la disfatta manifatturiera, viene bollato come un vetusto marxista-leninista. Senza la consapevolezza che un dilagante liberismo senza principi rischia di produrre anche vite operaie carbonizzate.
L’Unità 02.12.13