«I problemi che affliggono la ricerca scientifica in Italia sono complessi. Faccia caso a quanto è marginale il dibattito scientifico nel nostro discorso pubblico, pensi alla sua subordinazione nei confronti della cultura umanistica e, soprattutto, tenga conto della cronica mancanza di fondi». Vincenzo Balzani, professore emerito all’Università di Bologna e chimico apprezzato in tutto il mondo per le ricerche sul fotochimico inorganico, guarda in prospettiva alle polemiche che negli ultimi giorni hanno acceso la comunità scientifica italiana. A scatenarle il Consiglio dei ministri di giovedì scorso con l’approvazione in via preliminare di una legge contraria alla sperimentazione animale. Ieri, su queste pagine, la neosenatrice a vita Elena Cattaneo si rivolgeva direttamente a Napolitano e a Letta, paventando il rischio capitale che quella norma rappresenterebbe per lo sviluppo della ricerca biomedica.
Professore, cosa pensa della legge 96?
«Non è il mio campo, ma mi sembrerebbe ragionevole tornare alla posizione stabilita nella normativa europea, che è meno restrittiva della legge approvata dal Parlamento italiano».
Ritiene che questo caso sia emblematico per giudicare grave la condizione della ricerca in Italia come ha fatto
Nature Neuroscience?
«Non si può dire che goda di buona salute. Ma la vera ragione sono i tagli che da vent’anni intaccano continuamente non solo i fondi alla ricerca, ma anche quelli all’istruzione, che ne è la base. Naturalmente, alla fine in Italia ci si arrangia. Si finisce per specializzarsi negli aspetti della ricerca che costano di meno. Per esempio, noi a Bologna abbiamo fatto delle scoperte chimiche straordinarie lavorando direttamente sulle molecole, perché i grandi macchinari costano troppo. Ma, certo, l’alta ricerca scientifica in Italia resta appannaggio di piccole nicchie».
Lunedì, insieme al fisico Giorgio Parisi e alla biologa Michela Matteoli, lei è stato premiato con il Nature Award for Mentoring in Science 2013 dalla rivista Nature. Ma allora qual è il livello degli scienziati italiani?
«I nostri ricercatori non hanno niente da invidiare a quelli stranieri. Se si analizza la produttività degli scienziati italiani per unità di spesa, si scopre che è tra le più alte d’Europa. E inoltre io ho un sacco di allievi che hanno fatto carriere brillanti all’estero, anche perché l’università italiana prepara ancora abbastanza bene i suoi studenti. I problemi riguardano la ricerca. Concretamente, i fondi per i dottorandi e per i ricercatori sono davvero scarsi».
Se siamo arrivati a questo punto, non pensa che parte della responsabilità gravi anche sui professori e sul sistema accademico?
«In Italia le raccomandazioni valgono in ogni settore. Ma è vero che fino a qualche anno fa i soldi erano distribuiti in modo clientelare. Oggi, grazie ai sorteggi nelle commissioni e soprattutto grazie al fatto che cominciano a sparire i vecchi baroni, le cose stanno un po’ migliorando. Con il nuovo metodo di valutazione che assegna i fondi sulla base della produttività, le università forse hanno capito che se assumono persone di scarso valore finiscono per darsi la zappa sui piedi».
Come si esce da questo stallo?
«Restituendo presto un po’ di soldi alla ricerca, ce la caveremmo benissimo. Siamo in crisi, ma per uscire dalla crisi non si possono ridurre i finanziamenti all’istruzione e alla ricerca. Anzi, quanto più un Paese è in crisi tanto più deve potenziare l’istruzione e la ricerca scientifica. Così fanno tutte le grandi nazioni. La verità è che negli ultimi anni la ricerca in Italia è stata tenuta a galla dai fondi comunitari. Perché l’Unione Europea, a differenza dei governi che si sono succeduti in Italia negli ultimi vent’anni, ha dimostrato una strategia. Da noi non solo si taglia, ma è totalmente assente un indirizzo politico generale. Pensi al settore energetico. L’Italia non ha carbone, non ha petrolio, non ha metano, e qualche tempo fa il ministro Zanonato diceva ancora che si sarebbe dovuto parlare di nucleare. Ma sa che nel 2011 il fotovoltaico montato sui tetti italiani ha prodotto una quantità di energia pari a quella che produrrebbe una centrale nucleare»?
Su quali settori dovremmo investire?
«Sulle energie rinnovabili, ovviamente. Ma anche sulle nanotecnologie e sulla filiera del cibo. E poi c’è la questione culturale: i mezzi di informazione devono aiutare a diffondere la scienza. Bisogna far capire alla gente che sarà inevitabile consumare di meno».
Tanto più che gli italiani, diceva, sanno arrangiarsi…
«Appunto. Altro che trivellare l’Adriatico per trovare una goccia di petrolio…».
Quanto pesa culturalmente e politicamente la Chiesa cattolica sulla ricerca scientifica?
«Non direi che la Chiesa oggi ostacoli la ricerca. È chiaro che nel campo della biologia e della medicina, possono sorgere dei problemi, ma si tratta di questioni di natura bioetica. Quando si toccano i principi della vita, questo lo sanno gli stessi scienziati, ci vuole molta prudenza. La Chiesa, che spesso viene identificata con le sue frange più retrograde, è invece molto avanti negli altri settori della scienza e non li ostacola affatto. Perché tra scienza e fede non c’è contrapposizione. Riguardano entrambe l’uomo, ma occupano piani diversi».
La Repubblica 28.11.13