Tutto è consumato, dunque. Quasi quattro mesi dopo la condanna definitiva per frode fiscale Silvio Berlusconi deve lasciare il Parlamento perché il Senato lo dichiara decaduto, e non potrà candidarsi per i prossimi sei anni. Tutto questo in forza del reato commesso, della sentenza pronunciata dalla Cassazione e di una legge che le Camere hanno approvato un anno fa a tutela della loro onorabilità istituzionale, come risposta alla corruzione montante e agli scandali crescenti della malapolitica. Persino in Italia, quindi, anche per un leader politico, addirittura per uno degli uomini pi ù potenti del ventennio, valgono infine le regole democratiche dello Stato di diritto, e la legge si conferma uguale per tutti. Un processo è riuscito ad andare fino in fondo, l’imputato ha potuto difendersi con tutti i mezzi leciti e anche con quelli impropri, finché tutto si compie e le sentenze si eseguono, con tutte le conseguenze di legge. È certo una giornata particolare quella in cui si decide l’espulsione dal Senato di un uomo di Stato che ha guidato per tre volte il Paese come premier. Ma l’eccezione non è la decadenza, che segue la norma, una norma che il Paese si è dato da sobrio per essere regolato quand’è ubriaco, quando cioè il comportamento improprio dei suoi rappresentanti prende il sopravvento e viene certificato e sanzionato.
No, nonostante la propaganda. L’eccezione è che il leader di un grande partito che ha avuto l’onore di servire tre volte come presidente del Consiglio si sia macchiato di un reato così grave da subire una severa condanna, innescando con la sanzione del suo profilo criminale la norma di decadenza.
Questa verità è sparita dalla discussione, dall’analisi politica, dai giornali. Anzi, si è spezzato scientificamente il nesso tra l’inizio (il reato) e la fine della vicenda, cioè la decadenza. Con la scomparsa del nesso, si è smarrito il significato e il senso dell’intero percorso politico e istituzionale del caso Berlusconi. Domina il campo soltanto l’ultimo atto, privato dalla propaganda di ogni logica, trasformato in vendetta, camuffato da violenza politica. E così, il Cavaliere ha potuto evitare di affrontare politicamente e istituzionalmente la sua emergenza nella sede più solenne e propria, l’aula di Palazzo Madama che si preparava a farlo decadere, rinunciando a far valere le sue ragioni e a trasformare in politica le sue accuse. Ha scelto invece la piazza, dove i sentimenti contano più dei ragionamenti e i risentimenti cortocircuitano la politica,
umiliandola in un vergognoso attacco alla magistratura di sinistra paragonata con incredibile ignoranza alle Brigate Rosse, mentre un cartello usava l’immagine tragica di Moro per trasportare Berlusconi dentro un uguale, immaginario e soprattutto abusivo martirio.
“Lutto per la democrazia”, “Colpo di Stato”, “Legge calpestata”. “Persecuzione senza uguali”, “Plotone di esecuzione”. Uscendo dall’aula del Senato per arringare la piazza con queste parole, Berlusconi è uscito nello stesso momento definitivamente — per scelta e per rinuncia, in questo caso, non per decadenza — dall’abito dell’uomo di Stato per indossare il maglione da combattimento, la sua personale mimetica da predellino populista. Una cornice straordinaria, bandiere nuove di zecca e palette pre-distribuite con scritte contro il “golpe”, una ribellione di strada contro il Parlamento e la decadenza, dunque contro le istituzioni e la legge. Ma in questa cornice, è andato in scena un discorso ordinario, faticoso nella pronuncia e nell’ascolto, già sentito decine di volte, virulento nelle accuse ma rassegnato nell’anima. Riassunto, alla fine, nell’ostensione del leader alla folla nel momento in cui si schiude l’abisso, il re pastore che incontra il suo popolo ma non sa andare oltre la tautologia
fisica, affidandole la residua politica estenuata: «Siamo qui, non ci ritiriamo, noi ci siamo». Come se mostrarsi ai suoi fosse l’unica garanzia oggi possibile: per loro, ma soprattutto per se stesso, la sopravvivenza scambiata per l’eternità. Con un’ultima, minima via d’uscita per l’immediato futuro: «Si può essere leader anche fuori dal Parlamento, come Renzi e Grillo». Con la differenza — taciuta — che i due avranno piena libertà di movimento nei prossimi nove mesi, Berlusconi no, oltre a non essere candidabile per sei anni. Subire infine la realtà che si continua a negare è possibile solo se si vive in un universo titanico, dove non valgono regole e ogni limite può essere violato. L’universo personale del ventennio, per il leader della destra italiana. Il guaio per il Paese è che questa visione dilatata che scambia la libertà con l’abuso è diventata programma politico, progetto istituzionale, mutazione costituzionale di fatto. Dal giorno in cui per Berlusconi è cominciata l’emergenza giudiziaria fino a domenica (quando il Quirinale ha richiuso la porta ad ogni richiesta impropria) il tentativo di imporre alla politica e ai vertici istituzionali una particolare condizione di privilegio per il leader è stata costante e opprimente. Questo tentativo poggia su una personalissima mitomania sacrale di s é, l’unto del Signore. E su una concezione della politica culturalmente di destra, che fa coincidere il deposito reale di sovranità col soggetto capace di rompere l’ordinamento creando l’eccezione, e ottenendo su questo consenso.
La partita della democrazia a cui abbiamo assistito aveva proprio questa posta: l’eccezione per un solo uomo, l’eccezione permanente. Prima deformando le norme, allungando il processo, accorciando la prescrizione, chiamando “lodo” i privilegi, trasformando in norme gli abusi. Poi contestando non l’accusa ma i magistrati, inizialmente i pm, in seguito i giudici, da ultimo l’intera categoria. Quindi contestando il processo. Naturalmente rifiutando la sentenza. Infine condannando la condanna.
E a questo punto è incominciato il mercato dei ricatti. Si è capito a cosa serviva la partecipazione di Berlusconi al governo di larghe intese: a usarlo minacciando la crisi
se non si fosse varata la grande deroga, con buona pace degli interessi del Paese. Minacce continue, sottobanco e anche sopra. Tentativi di accalappiare il Pd, scambiando l’esenzione berlusconiana con il via libera alle riforme. Blandizie e pressioni per il Quirinale, perché trasformasse i suoi poteri in arbitrio e la prassi in licenza, pur di arrivare alla grazia tombale.
Una grazia non chiesta come prescrive la norma, quindi uno schietto privilegio. Ecco la conferma che il Cavaliere non cercava solo una scappatoia, ma un’eccezione che confermasse la sua specia-lità, sanzionando definitivamente la sua differenza, già certificata dal conflitto d’interessi, ogni giorno, dall’uso sproporzionato di denaro e fondi neri (come dice la sentenza Mediaset) su mercati delicati e sensibili, come quello politico e giudiziario, alla legislazione
ad personam.
Abbiamo dunque assistito a un vero e proprio urto di sistema. E il sistema non si è lasciato deformare, ha resistito, la politica ha ritrovato una sua autonomia, le istituzioni hanno retto, persino i giornali — naturalmente per ultimi, e quando la malattia della leadership era stata ampiamente diagnosticata dai medici — hanno incominciato a rifiutare i costi della grande deroga, scoprendo un’anomalia che dura in realtà da vent’anni, e non ha uguali in Occidente.
Il ricatto sul governo è costato a Berlusconi la secessione dei ministri, coraggiosi nel rompere con un potere che usa mezzi di guerra in tempo di pace, molto meno coraggiosi nel dare a se stessi un’identità repubblicana riconoscibile. Questa può nascere soltanto nel riconoscimento e nella denuncia dell’anomalia radicale del ventennio, una denuncia che determina una separazione politica e non solo fisica, una differenza culturale e non soltanto ministeriale, una scelta “repubblicana”, come dice Scalfari.
Per il momento il governo è più forte nei numeri certi (i dissidenti non possono certo rompere con Letta dopo aver rotto con Berlusconi), in una maggiore omogeneità programmatica, soprattutto nella libertà dai ricatti. Il governo usi quella libertà, questa presunta omogeneità e quei numeri per uno strappo sulla legge elettorale, offrendo al parlamento la sua maggioranza come base sufficiente di partenza per una riforma rapida, che venga prima di ogni altro programma, non in coda. Perché con Berlusconi libero e disperato, la tentazione lepeniana è a portata di mano per la destra italiana, un’opposizione a tutto, l’Italia, l’euro, l’Europa, e non importa se il firmatario del rigore con Bruxelles è proprio il Cavaliere, colpevole non certo di aver creato la crisi ma sicuramente di averla aggravata negandola.
Il governo è più forte, ma il quadro politico è terremotato. La tenuta delle istituzioni in questa prova di forza deve essere trasformata in un nuovo inizio per la politica: per riformare il sistema, dopo aver sconfitto il tentativo di deformarlo.
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“In piazza la parodia di una destra perduta”, di FRANCESCO MERLO
Pigiati come sardine sembriamo centomila, ma siamo meno di mille, la parodia di una folla oceanica nel budello stretto e corto di via del Plebiscito. E siamo addossati al palco dal quale lui con la pacchiana uniforme tutta nera di pingue “drag queen” del bunga bunga, celebra il “momento fatale”
come «lutto della democrazia». NON “Forza Italia” dunque ma “Senza Italia” è l’inno che solennizza, tanto per parodiare Stefan Zweig, la data storica, l’ora stellare e il minuto vertiginoso: le 17.43 del 27 novembre 2013: «Non lo dimenticherò mai». Dunque la Decadenza, l’avvenimento che tutto decide e tutto dispone, è subito parodia, ma più di Dita Von Teese, la regina del Burlesque, che di Napoleone, l’eroe sconfitto a Waterloo.
Anche via del Plebiscito è la caricatura di una piazza. Non è neppure un palcoscenico, ma è
una ridotta, un foyer che sembra affollato anche quando non c’è pubblico come stasera. E infatti questo è il luogo che il fascismo riservava al parcheggio delle ambulanze (“lettighe” le chiamavano) durante le adunate (vere) nella vicinissima piazza Venezia.
Ed è parodia anche la gioia armata che Berlusconi esibisce subito: «il Senato è di sinistra» grida «e ha ordinato al tempo di fare freddo». E lo dice per sottolineare che è qui senza cappotto. Sa che le telecamere inquadreranno lui che sfida il gelo e poi, per contrasto, la folla tutta imbacuccata, con i colli incassati nei toraci: è un cartoon orrendo che dà la sensazione della patacca, della maschera di cera. L’ho guardato attentamente, con il vecchio binocolo del cronista, e soprattutto quando è sceso e la sua devota fidanzata, che per tutto il tempo del comizio aveva inalberato il cartello «oggi decade la democrazia », gli ha baciato la mano. Ebbene, sotto il girocollo nero, si intravede qualcosa di molto aderente, non la maglia della salute ma una più efficace muta Mares da sub che è l’ultima grottesca trovata per parodiare Superman.
Gli slogan sono i soliti ed è stato anzi un po’ fiacco quando ha attaccato le istituzioni italiane soprattutto «la magistratura che soggioga il Parlamento». Sembrava una copia, sbiadita dalla carta carbone, della manifestazione di agosto, nello stesso posto e con la stessa gente. Mancavano solo le lacrime e il respiro che gli tagliava la gola. Erano identici anche i trucchi di regia del potente pretoriano Roberto Gasparotti (ancora quello della calza) che si sta applicando con passione a truccare come oleografie televisive le ultime cartucce del padrone. Dunque anche ieri sera la telecamera montata sul braccio mobile, — si chiama jimmy jib — si allontanava piano piano e, dando l’effetto di profondità, moltiplicava le teste della folla. Se fosse dipeso da lui, ieri sera Gasparotti avrebbe disposto un diluvio di fuochi d’artificio (finti) per illuminare il sublime istante dell’uomo dalla finta natura indomita.
Di sicuro questo exit di tricche e ballacche non ha precedenti e paragoni storici nazionali, né Cola di Rienzo né Machiavelli né Mussolini, né Craxi, non gli uomini delle Signorie e neppure i Cincinnato della storia romana: solo le sceneggiate dei caudilli sudamericani deposti, forse la corruzione di Mubarak e le amazzoni di Gheddafi. Insomma non c’è il codice italiano, non c’è l’Italia.
Ma la parodia più comica è quella dei Comitati di salute pubblica o forse dell’esercito della salvezza: «Faremo in tutta Italia i club che hanno voluto chiamarsi “Forza Silvio”, e mille saranno pronti già il prossimo otto dicembre, evviva ». È il carnevale dell’insurrezione: «saranno soldati», «saranno missionari», e anche questa è la smorfia del codice estremista. Fa appunto il verso alla rabbia degli antagonisti, dei no global, dei no tav, dei grillini. E infatti anche qui, a sorpresa, denunziano «la polizia che reprime», e «hanno portato via un nostro manifesto con su scritto “colpo di stato” », e «hanno bloccato i pullman fuori Roma» e «ci boicottano » e «attenti ai provocatori» … sino al paragone tra magistratura e Brigate rosse. L’idea era ben fissata nei cartelli che alcuni sparuti manifestanti ieri tristemente inalberavano fin dal mattino, «Berlusconi è prigioniero politico delle Br», mentre da Palazzo Grazioli ogni tanto qualcuno spostava le tende bianche per guardare cosa accadeva nel budello e allora c’era sempre quello che gridava «eccolo, eccolo» e giurava di averlo visto e di avere pure visto sullo sfondo la donna che ama «che se ne stava lì con Dudù in braccio …». È un delirio di macchiette che vedono quello che vogliono vedere,
gridano al golpe ma fanno ciao alla telecamera, sono ancora una volta parodie, persino del mattoide Paolini. È un raduno di spennacchiati e di ex ministri, tutti sotto il palco: la Prestigiacomo, la Gelmini, Brunetta, la Santanché, Verdini, Capezzone, Mantovani paradossalmente sembravano persone normali abbracciati e baciati dai mostri di Dino Risi che, brandendo cellulari, volevano la foto con il semivip della politica.
Per me che ero presente nel giorno in cui Berlusconi esordì a Roma, al suo primo comizio nella capitale nel febbraio del 1994, «a portare — disse — la luce come gli elettricisti» e si muoveva sul palco imitando Frank Sinatra, il paragone tra l’entrata e l’uscita di scena è obbligato, imposto dalla memoria. Ebbene, quel che mi colpisce non è la decadenza sua, ma del suo mondo. L’Italia con la cravatta è scappata via, al posto di quel vigoroso terriccio vegetale di commercianti, professori, industriali, viaggiatori di commercio, avvocati, ufficiali e magi-strati, qui ci sono solo le caricature che, certo, sono tipiche dei comizi, di tutti i comizi: c’è quello che si spoglia, una è vestita da fuoco, e viene avanti una signora avvolta in tre bandiere … insomma sono i soliti mattoidi italiani. Ma il punto è che qui ci sono solo loro, niente più lettori di libri, sono andati altrove gli uomini in completo di Brooks che passavano un mese al mare, prenotavano la settimana bianca, rispettavano il matrimonio, arrossivano quando li scoprivano con l’amante, quelli che vestivano all’inglese o alla marinara e portavano i colori del reggimento della Fininvest come medaglie (la cravatta, le nacchere, la coccarda…).
Ecco, è questa la vera decadenza, oggi l’Italia di Berlusconi è l’Italia degli avanzi, residuale, una specie di lumpenborghesia marginale come i falchetti — pappagalli che neppure si mobilitano per lui, sono solo un fenomeno di casting, non simboli della rigenerazione ma della degenerazione.
D’altra parte, nonostante i giornali di Berlusconi celebrino appunto il momento fatale qui la caduta di Bisanzio è una miserabile condanna per frode fiscale confermata dalla Cassazione, Wellington è nientemeno il giudice “Vabbuò chillo nun poteva nun sapere”, e fa ridere Brunetta nel ruolo di Dostoevskij “l’hanno strappato al sonno di notte, clangore di sciabole nelle casematte” e la Santanché è ancora e sempre parodia della Marsigliese, la sua nuova Forza Italia che ricomincia da oggi fa la smorfia al calendario della rivoluzione francese quando i mesi divennero Brumaio, Ventoso …. Ecco, nella riforma del calendario della Santanché, il novembre della Decadenza diventerà il Ricomincioso.
La Repubblica 28.11.13