Giovedì 10 aprile 1930, nella Casa del Fascio sulla milanese piazza Belgioioso, l’arcivescovo cardinale Ildefonso Schuster benedice l’ivi fondata Scuola di mistica fascista. L’insegna antirazionalistica è esplicita nell’aggettivo: i discenti s’immergono nel «pensiero del Duce»; al quale debbono una «fede intransigente», ribadita nel triplice imperativo «credere, ubbidire, combattere». Ormai ha uno status metaumano l’ex socialista anarcoide: dirigeva l’Avanti; improvvisamente bellicoso contro i reazionari Imperi centrali, s’era guadagnata l’espulsione dal partito antimilitarista. Post vittoria mutilata (così la deplora D’Annunzio) scompare al primo vaglio elettorale: nemmeno un seggio, ma riapparso come mano armata delle classi padronali nel velleitario biennio rosso, non ancora quarantenne, dal 31 ottobre 1922 guida un lunghissimo governo (20 anni,8 mesi, 25 giorni) nella girandola dei ministri, finché i carabinieri l’arrestano a Villa Savoia, domenica 25 luglio. Sapeva gestire l’anima collettiva e se avesse l’astuzia cautelosa dell’allievo dittatore spagnolo, Francisco Franco y Bahamonde, invecchierebbe tra Villa Torlonia e Sala del Mappamondo, magari entrando in guerra dalla parte vincente contro lo psicotico caporale austriaco. Ha tre doti utili nell’Italia ancora controriformista: parla e scrive in battute imperiose; fiuta gli umori della folla; intende la politica come teatro. Tra i difetti è un macigno l’Io ipertrofico i cui rumori gli confondono la mente, sicché stravede, sordo ai fatti: crede d’avere forgiato una razza guerriera, munendola d’armi formidabili; l’applaudono generali, ammiragli, industriali. L’assurda avventura abissina incantava gl’italiani, inclusi eminenti antifascisti quali Benedetto Croce o Vittorio Emanuele Orlando. Secondo lui, Francia e democrazie anglosassoni sono biologicamente condannate, quindi salta sul carro hitleriano, 10 giugno 1940 (illo tempore malediceva gli Unni): con mille o duemila morti vuol farsi un secondo impero mediterraneo; ha gran paura che Berlino e Londra transigano. Non gli dicono niente l’offensiva aerea fallita nel cielo inglese e il mancato «Leone marino». Churchill manda in Egitto parte dei pochi carri armati disponibili, avendo individuato nell’Italia il «ventre molle dell’Asse». Metafora perfetta. Era una partita intellettuale: l’empirista britanno combina cervello freddo e fantasia strategica; l’oratore romagnolo declama ruotando gli occhi, mani sui fianchi, mascella in fuori. Siccome Hitler s’è preso il petrolio rumeno, lui vuol restituirgli il colpo invadendo la Grecia nell’anniversario della Marcia su Roma, 28 ottobre: atto allucinatorio, sul presupposto che l’assalita non resista; invece combatte; manca poco che perdiamo l’Albania, appendice sabauda, mentre gl’inglesi in Libia sbaragliano un piagnucoloso Rodolfo Graziani, già eroe sanguinario contro gl’inermi. A parte qualche illusione presto spenta in Egitto e sul Don, il séguito porta sventure. Finché nella notte da sabato a domenica 25 luglio 1943 il Gran Consiglio restituisce i poteri a Sua Maestà: l’odg era «tradimento dell’idea»; conia questo singolare nomen delictiun Tribunale costituito ad hoccomminando condanne a morte; uno dei fucilati nella schiena è Galeazzo Ciano, vanesio ex ministro degli Esteri, genero-delfino, odiato dagli squadristi (non gli perdonano la carriera fulminea).
I cinque traditori muoiono nel poligono veronese l’11 gennaio 1944. Torniamo indietro d’un mese, e chiedo scusa se i verbi saltano alla prima persona. Siamo ricaduti in mano fascista. Domenica 12 settembre reparti della divisione SS Leibstandarte occupavano Cuneo: sette giorni dopo, Joachim Peiper massacra e incendia Boves; dispersi della IV Armata resistono. Sotto mano nazista nasce una Repubblica cosiddetta sociale. Le scuole riaprono tardi, lunedì 15 novembre, mentre i revenants neri tengono congresso a Verona. Siamo in quinta ginnasio. L’indomani nevica. Lunedì 6 dicembre nel sobborgo sulla riva destra del Gesso qualcuno visita Edoardo Cumar, fattorino del Fascio, nonché pugile, ora adibito alle sevizie: vengono a prenderlo partigiani scesi dalla Bisalta, ma il nome non circola ancora; li chiamano ribelli o patrioti. L’indomani sera, vigilia dell’Immacolata, tripodi accesi e guardia armata segnalano una camera ardente aperta al pubblico; vi metto piede, mosso da incauta curiosità. L’estinto giace in alta uniforme. Ai vecchi tempi passava pedalando, chino sul manubrio, e qualcuno gridava «ciao Cumar». Dev’essere forestiero un tale ben vestito in borghese, che racconta a due signore d’analoga figura come l’abbiano rinvenuto. La conclusione suona commiserante: «finiremo tutti così, l’hanno ucciso perché stava con noi»; le madame ascoltano compunte. Ipocriti, penso: sanno benissimo perché sia morto; la fede fascista non c’entra; i padroni gli affidavano lavori sporchi e li riteneva importanti, orgoglioso della promozione; abitava fuori città sentendosi sicuro. L’epopea repubblichina dura 19 mesi, squallida: gli esteti guerrieri della bella morte spariscono; a Cuneo, domenica 29 aprile non ne resta uno. Viene comodo pensare che i vent’anni fossero un incubo svanito al mattino, e così, senza dolorose autoanalisi, chiude i contiBenedetto Croce.
La Repubblica 28.11.13