“Santa Cecilia Vergine e martire”. Così abbiamo letto sul calendario di qualche giorno fa. Dunque, secondo tradizione, la festa della musica. Ma stando a quel che accade, più che una festa sembra un funerale. Di articoli lagnosi sulla musica in Italia ne abbiamo pubblicati una collezione in questi ultimi anni, né questo sarà l’ultimo. Eppure a ogni tornata nuovi guasti si sommano ai vecchi, irrisolti, così che lo scenario si intorbida sempre più, e chi queste cose le legge sui giornali ci capisce sempre meno. Ne deriva un pesantissimo effetto collaterale, una sorta di character assassination che scredita via via un mondo musicale impastato più di vizi che di virtù, e spiana la strada alle scatologie brunettiane del «culturame parassitario» e delle «élites di m…». Risultato? La musica tenuta in vita dai soldi dei contribuenti, come teatri d’opera, conservatori di musica, eccetera, appare ormai come una lussuosa e inutile propaggine di quel Moloch antidiluviano che per noi italiani è la pubblica amministrazione, che divora risorse e sforna disastri. Certo: parassitismo, inefficienza e spreco regnano tuttora, e talvolta raggiungono livelli scandalosi con terrificanti buchi neri di gestione. Ma a fronte di essi, molto meno reclamizzata, c’è anche la dedizione o addirittura l’eroismo di chi affronta difficoltà spesso drammatiche, con ghigliottine pronte ad abbattersi su istituzioni e iniziative musicali di ogni genere: frutti malefici di una politica inetta a «risolvere» e capace solo semmai e malamente di rappezzare. Esempio recente e controverso la Legge 112, nota alle cronache come «Valore cultura». Legge che fra i vari provvedimenti lancia l’ennesimo tentativo di salvare le fondazioni lirico-sinfoniche dal loro morbo incurabile. Ecco quindi un fondo di 75 milioni per un mutuo trentennale agli enti più incravattati dai debiti, in cambio della promessa che faranno i bravi, non butteranno quattrini e metteranno in mobilità un po’ di tecnici e impiegati. Rispetto a certe scandalose misure del passato (vedi nel 2008 il fondo di 20 milioni per le fondazioni commissariate, oppure la «legge Bondi» del 2010) c’è in effetti uno sforzo in più di riordino, che però non elimina e forse anzi aggrava le falle strutturali di queste grandi macchine da debiti. Il succo dunque è il solito ritornello: un salvagente (bucato) a chi peggio ha amministrato, mentre ai bravi restano solo i tagli. Che cos’è allora questa misura se non un nuovo sfregio alla dignità residua di quel mondo d’arte? Un colpo basso, che avvalora l’idea di un malcostume perennemente condonato, e che offende chi ha ben operato e si vede sistematicamente umiliato. Dall’interno del settore stavolta è venuta però una sacrosanta reazione, pressoché ignorata guarda caso, dal momento che le cronache e i legislatori sono soprattutto interessati a chi sfascia. Ad alzare la voce sono stati i teatri di tradizione. Meno drogati dalla mania suicida dell’«evento» e più radicati nel territorio, questi 28 teatri, escogitando soluzioni e camminando sul filo, riescono a produrre eccellenza e a a far quadrare i conti (salvo pochissime, eclatanti eccezioni quali il Regio di Parma). E giustamente l’Atit, la loro associazione, protesta con una nota ufficiale: anche noi siamo lirica, ci sappiamo fare, ma nessuno ci considera, anzi ci tagliano anche le briciole (poco più di 1/20 di quanto va alle 14 fondazioni maggiori). Briciole, aggiungiamo noi, da cui nascono però spettacoli spesso molto più belli e molto meno dispendiosi. Chi ha orecchie intenda. Sull’onorabilità della Santa dei musicisti incombono però anche altre ombre. I vecchi, artritici Conservatori di musica ad esempio. In questi giorni fioccano articoli ispirati da un recente parere dell’Avvocatura dello Stato, sollecitato verosimilmente dalla potente lobby che da sempre vuole il Conservatorio identico all’Università. Sul «Corriere della Sera» ad esempio, si legge che i Conservatori affosserebbero i nuovi licei musicali, continuando illegalmente a insegnare musica ai ragazzini (nei cosiddetti corsi «pre-accademici») invece di limitarsi all’«alta formazione» accademica. La ragione sarebbe il numero eccessivo dei docenti: uno ogni otto studenti, mentre la media universitaria è di uno a venti. Ciò spingerebbe i Conservatori a gonfiare il più possibile il numero degli iscritti: a oggi 48.000 (di cui neppure 14.000 nei corsi accademici), a fronte di 6.000 docenti. In effetti, se restassero solo i corsi accademici, 35.000 studenti dovrebbero sloggiare, e quei professori avrebbero in media due studenti a testa o poco più. Il quadro dipinge dunque direttori e docenti (fra cui chi scrive) come furbastri che imbrogliano le carte per nascondere il fatto di essere senza allievi. E come una ciliegina ecco il recente provvedimento che ha salvato oltre un migliaio di precari del settore: una regalìa scandalosa, laddove, evidentemente, bisognerebbe disboscare energicamente. Troppo complesso smentire questi equivoci? No, semmai poco redditizio in termini di qualunquismo. Perché se all’Università un professore ha in aula 100 studenti, il docente di Conservatorio ne ha uno. Il problema tuttavia c’è ed è drammatico, da quando, con l’infelice riforma del 1999, 80 Conservatori sono stati convertiti tutti, indiscriminatamente, in Università di musica: una follia. Si è liquidata così la formazione di base, nell’illusione che i licei musicali, di là da venire, l’avrebbero rimpiazzata. Senonché, ovunque, i licei musicali servono a diffondere la cultura e la pratica della musica, non a formare professionisti per i quali in tutta Europa esistono scuole apposite. I corsi pre-accademici nascono appunto da questa necessità. Purtroppo, anche nel paese dove si sbandierano riforme a costo zero, la formazione musicale professionale costa cara. Ogni Conservatorio possiede un patrimonio di strumenti musicali che vale qualche milione di euro. Per questo i licei musicali non decollano. E i pochi che esistono ospitano forse un decimo di quei 35.000 studenti che, fuori dal Conservatorio non avrebbero dove studiare musica. Anche sui calendari tedeschi c’è scritto Santa Cecilia. Ma in pochi ci avran fatto caso fra quei 150.000 (!) che studiano musica al liceo, e soprattutto quel milione di ragazzi (!!!) iscritti alle Musikschulen (l’equivalente dei corsi pre-accademici), i più bravi dei quali concorreranno poi per il livello accademico-universitario dove c’è posto sì e no per 25.000 studenti. Ma si può capire la loro indifferenza: rispetto a noi, per la musica, lì è festa tutto l’anno.
L’Unità 27.11.13