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“La Terra dei fuochi”, di Roberto Saviano

La storia del suicidio più drammatico avvenuto nei paesi mediterranei, ovvero l’eliminazione di una grossa parte delle primizie dell’agricoltura a favore dell’economia illegale dei rifiuti, per qualche giorno è sembrata interessare i media nazionali e la politica. D’improvviso il tema dell’avvelenamento delle terre campane ha attraversato il dibattito nazionale, quello striscione con la parola “Biocidio” è apparso nelle foto, nei siti, nei tg, ed è riuscito a provocare indignazione, paura, promesse di cambiamento. Molti parlano di Terra dei fuochi, pochi sanno cosa significa davvero. In queste settimane in rete circola l’immagine di un documento che risale agli anni 80, stilato dalla sezione del Partito comunista di Casal di Principe. Con quel documento si denunciava, mentre accadeva, l’avvelenamento dei terreni, la fine per sempre della Campania felix. Sapevamo già tutto. È per questo che quando Carmine Schiavone nel 1997 diceva che gli abitanti della Terra dei fuochi «sarebbero tutti morti nell’arco di venti anni» sbagliava: essi erano già morti, civilmente morti.
Sono anni che, insieme ad altri, racconto le sciagure della Terra dei fuochi, che nel tempo ha finito con il fagocitare interi comuni, estendendo sempre più i suoi confini. Da quando Peppe Ruggiero di Legambiente usò questa suggestiva espressione, così lontana dalla Terra del fuoco descritta da Magellano. Come l’esploratore portoghese vide dal mare i fuochi sulla costa, così chi viaggia sulla Strada Statale 7 bis Terra di Lavoro (la Nola-Villa Literno) o sull’Asse Mediano, se distrae lo sguardo dall’asfalto vede tutt’intorno fumo salire dalla terra e se abbassa il finestrino sente un odore acre che brucia in gola lasciando un sapore acido. Un odore cui non è possibile assuefarsi.
Come è potuto accadere? Come è stato possibile intombare tanti rifiuti tossici, fino a renderne difficile se non impossibile l’estrazione dal suolo? C’è la via, tra virgolette, “legale”. Da trent’anni diverse aziende del Nord hanno appaltato — e purtroppo ancora appaltano — lo smaltimento dei loro rifiuti speciali a ditte specializzate, apparentemente legali, che riescono a fare enormi sconti: specialmente in una congiuntura economica come questa, possono fare la differenza tra sopravvivere o fallire. È una dinamica chiara: non è forse questo il tempo in cui i grandi Paesi industrializzati affermano di non essere in grado di osservare i vincoli posti dal Protocollo di Kyoto? Basti pensare, a titolo di esempio, come gli stakeholder italiani (ossia i mediatori tra industria e ditte che smaltiscono) sono riusciti, nel 2004, a garantire che ottocento tonnellate di terre contaminate da idrocarburi, proprietà di una azienda chimica, fossero trattate al prezzo di venticinque centesimi al chilo, trasporto compreso. Un risparmio dell’80 per cento sui prezzi ordinari. Le aziende che in questo modo si liberano dei rifiuti prodotti sono colpevoli, certo, ma allo stesso tempo legalmente tutelate, perché le ditte che forniscono il servizio di smaltimento producono documentazioni legali. Poi, il gioco sporco comincia con i giri di bolla che fanno risultare che il ciclo è apparentemente rispettato. Quello dei giri di bolla è il secondo passaggio e avviene nei centri di stoccaggio. I titolari fanno in modo di raccogliere i rifiuti speciali che, in molti casi, miscelano con rifiuti ordinari, diluen.do la concentrazione tossica e declassificando, rispetto al Cer (Catalogo europeo dei rifiuti), la pericolosità dei veleni.
E poi c’è la via criminale. Lo smaltimento illegale tramite combustione: i fuochi. Bruciare copertoni, bruciare vestiti, ogni sorta di plastica, bruciare cavi di rame per liberarsi della guaina, bruciare rifiuti d’ogni sorta speciali e ordinari. È la folle scorciatoia presa da chi vuole evitare costi di smaltimento elevati. Si brucia perché così si diminuisce la massa dei rifiuti e poi si mescolano al terreno le ceneri. Queste terre vengono considerate semplicemente spazi, spazi da riempire, spazi su cui guadagnare. Capita spesso, quando si viaggia in questa parte di Paese, di vedere aree di sosta colme di rifiuti. Il pensiero più immediato e il più lontano dalla realtà, è pensare che i campani siano incivili perché invece di differenziare la loro spazzatura, invece di gettarla semplicemente nel cassonetto sotto casa, si prendono la briga di caricarsela in macchina e di lasciarla in strada per dare di sé e della propria terra l’ennesimo mortificante spettacolo. Non è così. Quelle aree di sosta sono spazio, metri quadri dove sversare. Tutto questo è l’esatto contrario di ciò che sembra. Non è inciviltà. È criminalità, ovvero una forma organizzata di guadagno. Sommando la superficie di tutte le piazzole di sosta del napoletano e del casertano, ingombre di rifiuti, si raggiungerebbe l’estensione di una grande discarica. E questo è anche il segno dello stadio terminale del disastro. Il rifiuto non è più identificabile, circoscrivibile: il rifiuto ha pervaso le nostre vite. Avanza, fino quasi a lambirci o a sommergerci, come è già accaduto nella città di Napoli qualche anno fa.
Ma come si è arrivati a tanto? Perché queste terre preziose per le coltivazioni sono diventate cimitero per rifiuti? Pomodori, broccoli, zucchine, cicoria, cavolfiori, fave, peperoni. E poi arance, mandarini, mele, pere, Tutti questi prodotti, la grande distribuzione ha iniziato a pagarli ai coltivatori campani sempre meno. Il rischio, se non avessero accettato di abbassare i prezzi, era che li avrebbero acquistati all’estero, in Libano, in Grecia, in Spagna. E così cade la barriera: l’agricoltura smette di essere la fonte primaria di guadagno per i coltivatori diretti che spesso cedono o affittano una parte delle loro terre alle imprese, o più spesso a loro intermediari, per lo sversamento illecito di rifiuti. Con quei guadagni vanno avanti e mantengono in parte le coltivazioni, tratti in inganno dalle rassicurazioni che quei rifiuti non arrecano danno. Ben presto si scopre che non è così. Che spesso si tratta di sostanze tossiche che fanno marcire interi raccolti.
Una domanda non può essere elusa. Chi sono i responsabili di questo disastro ambientale e umano? Io credo che personificare il male sia inutile artificio, quando ci si trova al cospetto di una tale sequela di opere, omissioni, silenzi e ferma volontà di ignorare quello che accadeva. La puzza c’è sempre stata e per i nuovi nati è divenuta normalità, come le piazzole di sosta delle statali divenute discariche improvvisate. Quei silenzi, quelle omissioni e a volte quelle opere, sono state della borghesia campana, napoletana e casertana nello specifico. Il disastro ha creato un indotto economico, foraggiato dalla politica dell’emergenza. E poi ci sono le responsabilità politiche, al di là di quelle giudiziarie. Solo se accettiamo tutto ciò, possiamo poi risalire fino a coloro i quali, plebiscitariamente eletti, hanno rappresentato il potere in Campania negli ultimi anni. Due personalità si stagliano in questo scenario di morte: Antonio Bassolino e Nicola Cosentino. Il primo è reduce da una piena as-
soluzione all’esito del processo che avrebbe dovuto ricostruire le eventuali responsabilità connesse al disastro del ciclo dei rifiuti in Campania. Il secondo è attualmente sotto processo, anche con riguardo alle vicende del consorzio Eco4: la rete dei consorzi di gestione del ciclo dei rifiuti ha costituito l’ossatura del sovvertimento democratico, che ha condotto allo spreco di risorse pubbliche, che ha prodotto enormi profitti per la criminalità organizzata e che ha compromesso in maniera difficilmente rimediabile una qualsivoglia normalità nella gestione dei rifiuti. I consorzi erano retti da un sistema di potere consociativo. Nei consorzi centrosinistra e centrodestra sono sempre stati alleati. Per la enormità di queste evidenze il peso che incombe sulla Procura della Repubblica di Napoli è enorme: il fallimento di un processo durato anni può rappresentare un boomerang devastante. Il tentativo di sanzionare le responsabilità politiche con lo strumento del processo penale, può implicare due terribili conseguenze: da un lato, l’incapacità di focalizzare le reali responsabilità penali qualora esse vi siano; dall’altro, il rischio di trasformare l’assoluzione all’esito del processo in un’assoluzione anche dalle responsabilità politiche. È quello che è successo con Antonio Bassolino, la cui assoluzione in tribunale non cancella però la responsabilità che come politico ha avuto nel permettere che tutto degenerasse fino a questo punto.
Quali le prospettive? Che fare? Ciò che è certo è che bisognerebbe uscire definitivamente — anche linguisticamente, prima che nei fatti — dalla logica della emergenza, che nel sud Italia e in Campania in particolare si è fatta cultura. È il tempo dello studio e della osservazione: è il tempo di chiamare a offrire alternative al disastro quei giovani e non più giovani espulsi da questa società meridionale intrinsecamente mafiosa. Un ruolo fondamentale dovranno avere i sindaci. La storia di Vincenzo Cenname, primo cittadino di Camigliano, in provincia di Caserta, ad esempio, dovrebbe insegnare a tutti che la soluzione c’è già e bisogna solo fare in modo che venga fuori. Osteggiato dal sistema dei consorzi, Cenname ha resistito, appoggiato dai suoi concittadini, ed è riuscito ad organizzare la raccolta differenziata in totale autonomia: e funziona. Oggi è imperativamente necessario procedere a una perimetrazione a carattere scientifico delle zone inquinate con l’introduzione del divieto di produzioni agricole per le stesse e, d’altro canto, la previsione di incentivi per produzioni non agricole (ad esempio il bioetanolo). Questa proposta, nella sua ragionevole pragmaticità, parte dalla necessità di associare a ogni area un valore preciso, perché non tutte le aree
sono state sfruttate allo stesso modo, non tutte hanno lo stesso grado di inquinamento. Non tutte presentano tracce delle medesime sostanze e non tutte nelle stesse quantità. È evidente che alcune terre sono totalmente compromesse, mentre altre possono essere bonificate e recuperate all’agricoltura con interventi meno incisivi e quindi anche meno costosi.
Il danno di questi giorni, che si aggiunge alla devastazione dell’inquinamento e allo sconforto che accompagna il pensiero costante della mancanza di un futuro dignitoso, è che tutto sembra avvelenato. Che tutti i prodotti campani vengano considerati inquinati, dalla mozzarella alle mele annurche, dalle fragole ai pomodori. Tutto viene dato per spacciato, compromesso. Per salvare l’economia agricola della Campania non è più sufficiente semplicemente tracciare la filiera di un prodotto, aggiungere l’etichetta “bio” e vestirlo da prodotto sano. Ora la comunica-
zione deve essere necessariamente fatta in maniera diversa, non si deve lasciare spazio a dubbio alcuno. Il bollino dovrà esplicitamente dire che il prodotto viene da terra non inquinata, da terra sana. Deve riportare l’indirizzo di un sito su cui è possibile verificare lo stato di quel terreno attraverso analisi. Ogni qual volta si generalizza sull’agricoltura campana o addirittura si iniziano a vedere nei supermercati «questo prodotto non viene dalla Campania», si sta favorendo l’economia camorristica: in che modo? I prodotti campani diventano invendibili, a quel punto entrano nel mercato illegale. I prodotti avvelenati vengono mischiati con quelli sani e i clan li portano nei mercati ortofrutticoli che — come le inchieste delle Dda su Fondi e Milano hanno dimostrato — sono stati spesso infiltrati dal potere delle cosche. Quei veleni saranno clandestinamente richiestissimi dai grossisti perché potranno comprare a costo bassissimo e rivenderli come prodotti del nord a costi alti e l’etichetta «non prodotto in Campania».
Terre a vocazione agricola, terre di pascolo, terre a vocazione turistica, terre di bellezza, avvelenate sistematicamente sotto il sole, sotto gli occhi di tutti. Sotto gli occhi di chi è rimasto impotente in un paese dove ormai si è convinti che riformare le cose sia impossibile. Ciò che resta è il vigliacco piacere di volerle abbattere pensando a un mondo meraviglioso e nuovo che non verrà mai. E in nome di questo mondo si sta rendendo il quotidiano un inferno invivibile. Questo meccanismo lo descrive benissimo Robert Musil: «Quell’inqualificabile piacere (che molti di noi hanno,
ndr) che consiste nel vedere il bene abbassarsi e lasciarsi distruggere con meravigliosa facilità».

La Repubblica 25.11.13