Mancano due settimane al voto dell’8 dicembre, ma il Pd è già nelle mani della sua seconda generazione. Non è solo la competizione per la segreteria – Matteo Renzi, Gianni Cuperlo, Pippo Civati – a indicare l’avvenuto passaggio di testimone. Colpivano ieri le immagini dell’affollata platea dei delegati alla Convenzione di Roma: tanti volti nuovi, tanti giovani, la cadenza degli applausi che seguiva ritmi diversi dal passato. Colpiva soprattutto l’assenza della classe dirigente che ha guidato il centrosinistra in questi vent’anni. Di quel centinaio di fondatori, che a fine 2007 decise di sciogliere i partiti di provenienza per dare vita al Pd, ieri erano in prima fila soltanto Alfredo Reichlin e Dario Franceschini. Attorno a loro c’era forse qualche disorientamento, però si sentiva una forza vitale.
Il ricambio generazionale è avvenuto. E ora è alla prova della politica e del potere. Deve parlare la lingua nuova del tempo nuovo. Deve affrontare la sfiducia e la paura del declino. Deve offrire una speranza di futuro e un’idea di Italia in Europa. Deve dimostrare che la sinistra non è retaggio del passato, ma forza necessaria al riscatto del Paese. Non è mai semplice il destino della seconda generazione, quando le sorti non sono magnifiche e progressive. Ma non ci sono più alibi. Ora la cosa peggiore sarebbe perpetuare la retorica del rinnovamento, rinviando la piena assunzione di responsabilità. Continuo a pensare che la parola «rottamazione» fosse violenta e sbagliata: nel suo libro Renzi ha accennato a un’autocritica. Una famiglia non butta via i padri che invecchiano, anzi si serve delle loro esperienze e delle loro idee. I giovani adulti sono più forti quando cambiano la rotta dei padri senza demonizzarli. Ma conosco l’obiezione: solo un aspro conflitto può rompere l’immobilismo delle vecchie classi dirigenti. L’importante è che ora si affronti il cambiamento a testa alta, anche verso le oligarchie che vogliono la politica debole. Il ricambio generazionale è solo la premessa. O il cambiamento sarà tale da rimettere in discussione i paradigmi economici, culturali, sociali che hanno paralizzato la democrazia, oppure la sinistra andrà incontro alla più drammatica delle sue sconfitte. Del resto, la classe dirigente è vecchia e immobile ben oltre la rappresentanza nelle istituzioni.
Renzi, Cuperlo e Civati non sono «nativi Pd». La loro militanza politi- ca nasce nei partiti fondatori: è la caratteristica della seconda generazione. A cui va associato anche Enrico Letta, che faceva parte della prima ma ne era anagraficamente il più giovane. Ieri sono stati loro quattro i protagonisti, e dall’8 dicembre saranno i punti cardinali del Pd. Il governo, infatti, non è parte secondaria della vicenda delle primarie, né del progetto che i democratici proporranno al Paese.
Alla Convenzione i contenuti del rinnovamento – il chi siamo, e per quale futuro ci battiamo – hanno preso forme diverse negli interventi di Gianni Cuperlo e di Matteo Renzi. È stato il cuore della competizione. E ora sulla possibilità che siano forme complementari si gioca il futuro del Pd e la sua ambizione di guidare il Paese. Per Cuperlo il cambiamento è anzitutto rottura dello schema liberista e dei suoi derivati. È liberazione delle sinistra dalla subordinazione politica e culturale, cui è stata costretta dall’egemonia della destra. Per Renzi il cambiamento è in primo luogo trasformazione del linguaggio della sinistra. E delle sequenze della politica. Meglio accorciare gli orizzonti e offrire una pragmatica coerenza di governo a scadenze verificabili. Per Cuperlo il sindaco di Firenze rischia così di tenere la sinistra imprigionata in un blairismo tardivo. Per Renzi il suo antagonista rischia invece di perpetuare le condizioni delle sconfitte elettorali, alzando troppo la posta ideale e offrendo alla destra praterie nella comunicazione ormai priva di mediatori sociali.
L’8 dicembre si sceglie solo il segretario del partito Ma il partito non è la retrovia del governo. O diventa esso stesso un soggetto della ricostruzione sociale e istituzionale, oppure non serve a nulla. O il Pd diventa il partito-società che molti suoi iscritti sperano, o si ridurrà anch’esso a partito-personale. Il voto degli iscritti ha dato a Renzi il 46% e a Cuperlo il 40. Un partito non si governa secondo un principio maggioritario. Un partito non può avere maggioranza e opposizione ossificati. Verrebbe meno la sua dimensione di comunità, oltre che la sua efficacia nella società. I leader della seconda generazione dovranno partire da qui. Il rinnovamento non può fare a meno della loro duplice e oggi conflittuale ambizione. Non è in gioco banalmente l’unità del Pd. È in gioco la sua identità e la missione nazionale. La nave è già in mare aperto. E guai se la frammentazione correntizia risucchiasse le leadership emerse in questa battaglia. Il percorso dei nuovi leader deve continuare: ridur- re la dialettica alla diarchia segreta- rio-premier ha già portato male al Pd.
L’Unità 25.11.13