L’Italia ha vissuto una settimana molto difficile, caratterizzata da quattro dissesti intrecciati. Il dissesto geologico in Sardegna le cui cause vanno al di là della geologia e tirano in ballo l’incapacità crescente di governo del territorio non solo in quell’isola ma in tutto il Paese; il dissesto politico che sta facendo «esplodere» i partiti della maggioranza, alterandone profondamente natura e struttura; il dissesto sociale messo in luce dalla manifestazione di Roma e dagli scioperi spontanei di Genova; il dissesto del sistema produttivo che rende difficile una ripartenza della crescita i cui primi segnali si rafforzano meno rapidamente delle attese di qualche mese fa. Per scuoterci di dosso un pessimismo eccessivo, forse dovremmo ricordarci il vecchio detto «mal comune, mezzo gaudio»: in quasi tutti i Paesi ricchi (e in buona parte di quelli emergenti) ritroviamo fenomeni simili a quelli italiani.
Per limitarci all’Europa, possiamo cominciare dalla Spagna. Centinaia di migliaia di persone sono sfilate ieri «in difesa del settore pubblico» (una rivendicazione non troppo distante da quella dei tramvieri di Genova), «in difesa delle persone» e «per cambiare le cose».
L’iniziativa non è certo partita dalle forze politiche tradizionali, bensì dalle associazioni di volontariato, della società civile, dei sindacati, riuniti sotto la sigla di Cumbre Social o «vertice sociale». Più violenta è l’agitazione dei «berretti rossi» francesi, nata anch’essa al di fuori del contesto politico tradizionale, che da qualche settimana blocca la Bretagna: sullo sfondo di dati produttivi e fiscali niente affatto lusinghieri, si estendono blocchi stradali, che ieri hanno interessato anche la Costa Azzurra, e distruzioni di caselli autostradali (in segno di protesta per un’«ecotassa» che di ecologico ha poco più del nome). Intanto, in una Grecia che ha da tempo perso il sorriso, un sondaggio pone il movimento nazionalista Alba Dorata, con caratteri para-fascisti, al primo posto delle intenzioni di voto con il 26 per cento, più della sinistra radicale e dei conservatori, mentre i socialisti crollano al 5 per cento.
Si potrebbe continuare a lungo con l’elenco dei malesseri europei: non è solo in Italia, ma quasi dappertutto che governi, parlamenti e opinione pubblica sono alle prese con leggi finanziarie difficili, confuse e severe, sempre meno tollerate dalla gente, mentre quasi dappertutto le economie che hanno difficoltà a riprendere o proseguire i loro percorsi di crescita. Quasi dappertutto, eccetto in Germania dove sembra regnare una normalità quasi surreale e tutto tace in attesa che venga ultimata la stesura di un minuzioso «contratto di coalizione» tra democristiani e socialisti. Anche se quest’assordante silenzio della politica tedesca, dopo due mesi dalle elezioni politiche di settembre, apparentemente rientra nella prassi di quel Paese, viene il sospetto che vi sia qualche difficoltà a creare un’ennesima «grande coalizione».
Il pericolo è che, mentre il resto d’Europa si agita per questioni che interessano la gente, una Germania priva di disoccupati ma incapace di far ripartire il motore bloccato dell’economia europea stia perdendo l’occasione politica ed economica di guidare la ripresa del continente e stia facendo correre all’Europa rischi molto elevati. E questo mentre anche il motore americano e quello cinese non stanno certo girando al massimo e l’Ocse ha bruscamente abbassato le stime di crescita di quasi tutti i Paesi per il 2014, proietta le responsabilità tedesche su un piano planetario.
Il silenzio tedesco ha lasciato spazio alle istituzioni europee: la Bce ha ridotto il costo del denaro, senza tener conto dell’irritazione che questo avrebbe causato in Germania e la Commissione ha aperto un’indagine sulla stessa Germania, accusata di un eccesso di attivo nei conti con l’estero, ossia di una soffocante aggressività commerciale che toglie spazio e linfa vitale alle altre economie. E perfino il finlandese Olli Rehn, commissario agli Affari Economici e Monetari, severissimo alfiere dell’austerità dei conti pubblici, dopo esser stato non banale giocatore di calcio, ha cominciato a parlare apertamente della necessità di una ripresa.
Ecco il quadro in cui si deve muovere l’Italia con i suoi quattro dissesti (o forse molti di più, a seconda dei parametri che si adottano per contarli). Nel mal comune attuale vi è almeno un elemento moderatamente positivo: non siamo più i soli, o i principali, «cattivi» d’Europa, che potrebbero incrinare, o peggio, la solidità monetaria ed economica del continente. Le schiere dei «cattivi» si stanno ingrossando e, anche se in maniera confusa, l’Italia sta facendo almeno qualche progresso su tagli alla spesa, deficit e debito, in attesa di quella sospirata boccata d’ossigeno che solo una ripresa (meglio se collegata al risveglio di consumi interni, che la paura della crisi contribuisce a tenere bassi, in un disgraziatissimo circolo vizioso) sarà in grado di confermare.
La nuova situazione europea impone peraltro nuovi vincoli all’Italia: non è pensabile una crisi di governo a Roma proprio in un momento di estrema vulnerabilità dell’intero quadro economico e politico europeo. Se si andasse davvero in quella direzione, l’Europa ci porrebbe ai margini come ha già fatto nel 2010-11, mentre invece una buona gestione del semestre italiano (luglio-dicembre 2014) costituirebbe un’occasione di rilancio per l’Italia e per l’Europa.
La Stampa 24.11.13