A Genova la privatizzazione, parziale, degli autobus l’avevano già tentata nel 2005. Ma non è servita a nulla, anzi. I soci francesi (la Rapt subentrata a Transdev) nel 2011, infatti, se la sono data a gambe levate. Sono dunque almeno 8 anni che l’Amt è in mezzo al guado, in crisi nera, con il Comune che non riesce a saltarci fuori. E come Genova ci sono tante altre città pronte a portare in tribunale i libri delle loro aziende di trasporto. Che in Italia sono ben 1150, per il 40% tecnicamente fallite causa debiti.
Può succedere che la «privatizzazione» diventi la via di fuga di fronte ad un problema insormontabile: si passa la mano, sperando che un nuovo socio possa fare meglio, abbia più risorse da gettare nell’impresa oppure la forza di piegare la resistenza dei sindacati, che in queste come in altre situazioni ovviamente si mettono di traverso. Il problema però non si risolve tanto e solo nell’annoso dibattito privatizzazioni sì o no: perché ci sono esempi di privatizzazione positive, che hanno prodotto risultati, come a Trieste e Udine, dove è entrata Arriva (controllata dalle ferrovie tedesche) e privatizzazioni che non hanno risolto nulla, come appunto quella di Genova.
La domanda da porsi invece è un’altra: nel 2013, con la situazione dei conti pubblici che il Paese si ritrova e le tante emergenze sociali, ha ancora senso che un Comune gestisca direttamente gli autobus cittadini? E, soprattutto, che un unico soggetto sia allo stesso tempo socio dell’azienda e controparte della stessa nella stipula dei contratti di servizio che quasi tutte le città stanno mettendo a gara? O se vogliamo, ha ancora senso che i trasporti pubblici vengano gestiti così? Con aziende di dimensione comunale, incapaci di fare vere economie di scala, dove la politica se vuole (e vuole sempre) fa il bello ed il cattivo tempo come dimostra il caso limite dell’Atac di Roma, assurta alle glorie nazionali più per la famosa «Parentopoli» e per aver accumulato un debito da far impallidire (1,6 miliardi di euro) che per efficienza e qualità dei servizi. Parliamo di quella stessa politica che non programma, ad esempio intervenendo sulla viabilità urbana per assicurare ai mezzi pubblici una velocità commerciale più spedita, e che si accorge di queste imprese solo perché si va a votare e lì pesca sempre un sacco di voti.
E’ vero mancano i soldi. E da Roma (come dalle Regioni) di soldi ne arrivano sempre meno. Ma questo fatto non può essere l’unica spiegazione di tante situazioni di difficoltà. Anche perché nel frattempo i biglietti sono rincarati quasi ovunque ed in parallelo gli stipendi degli autisti sono stati congelati (sono sei anni che il contratto di categoria è scaduto, lamentano i sindacati).
Gli esperti dicono più che i soldi manca la progettualità. E se privatizzare è una scorciatoia che può rivelarsi a volte controproducente ci si deve chiedere cosa si può fare altro? Le esperienze non mancano. In Emilia Romagna sono riusciti ad unificare quasi tutte le aziende di trasporto delle città capoluogo: Piacenza con Reggio e Modena, Bologna con Ferrara e l’azienda dei treni regionali, Cesena con Forlì e Ravenna. Un modo per fare massa critica, economie di scala ed integrare meglio il trasporto su ferro e gomma, dagli investimenti agli orari, alla gestione dei biglietti. Qualcun altro ha invece scelto l’opzione Trenitalia, che al pari degli altri grandi operatori ferroviari europei è entrata in questo settore e dal 2012 gestisce i bus della Firenze di Renzi ed ora guarda all’Umbria e al Triveneto.
E il governo? Dopo aver aumentato con la legge di stabilità i fondi per acquistare nuovi bus e treni regionali (300 milioni in più dal 2014), dopo il caso-Genova ed i segnali di insofferenza (e crisi) che arrivano da altre città (Roma, Napoli, Caserta, la Sicilia, i casi più eclatanti) ha deciso di aprire un tavolo nazionale per prendere di petto la crisi del settore. Che di riflesso è anche crisi dei grandi produttori nazionali di bus come Irisbus e Breda Menarini. Ed è un danno per tutti i cittadini che pagano biglietti sempre più cari a fronte di servizi sempre più scadenti.
La Stampa 23.11.13