Dalla Sardegna ferita mortalmente viene una conferma tragica: il rigetto di ogni pianificazione territoriale e paesaggistica. Al di là della pietà umana, non si può dimenticare «la mano dell’uomo» in tanto disastro, come ha detto un prelato ai primi funerali. La mano dell’uomo che ha continuato a saccheggiare il territorio, che ha continuato a costruire nell’alveo dei corsi d’acqua o su torrenti stupidamente tombati (come a Genova), e che è stata assente nella pulitura degli alvei e delle rive. Con una città come Olbia quasi tutta illegale.
Il caso della Sardegna non è peraltro isolato. Al Nord l’alluvione del basso Piemonte del ’94 fu pesantemente aggravata dalla presenza di edifici di ogni genere vicino agli affluenti del Po o nelle stesse golene destinate a fare da sfogo. Al Sud, in Calabria, si sono costruite case sulle «fiumare» col pretesto che sono senz’acqua per anni e anni, salvo scatenar- si e spazzare via ogni cosa alla prima pioggia torrenziale. È persino stucchevole ripetere le cifre delle nostre catastrofi, per lo più non «naturali» bensì aggravate o provocate dall’uomo. Ne cito alcune prodotte non da un ambientalista bensì da un alto funzionario della Banca d’Italia, Ivan Faiella, ai Lincei nel marzo scorso: alluvioni e frane hanno provocato nell’ultimo sessantennio circa 5.500 vittime e danni misurabili in 2,7 miliardi annui (in euro 2009) che però raddoppiano se si includono quelli indiretti a famiglie e imprese. In un decennio appena, fanno oltre 50 miliardi di euro, più di quanto serve a mettere in sicurezza tutto il territorio nazionale. Un autentico suicidio collettivo. Per giunta stupidissimo.
Una delle cause della tragedia sarda è l’impermeabilizzazione dei terreni a base di cemento e asfalto: oltre il 7 per cento dell’Italia sta sotto questa coltre che però nelle aree metropolitane copre la metà dei terreni. Malgrado ciò si continua a costruire, cementificare, asfaltare. Il governatore del centrosinistra Renato Soru aveva chiamato in Sardegna i migliori urbanisti, guidati da Edoardo Salzano, prima per un piano salva-coste (subito impugnato da Berlusconi che ha in progetto una sua Costa Turchese), poi per piani paesaggistici in tutta l’isola. Si sarebbe potuto costruire solo a 2000 metri dalla battigia. Oggi il governatore del centrodestra Ugo Cappellacci si vanta di aver ridotto quella fascia di rispetto a 300 metri e di aver smantellato piano salva-coste e piani paesaggistici che i sindaci trovavano ovviamente «troppo restrittivi» (erano soltanto rigorosi). Ed ha potuto farlo in barba a tutti per poter prevedere, dice, 3 milioni di mc di alberghi, club house, case attorno a 25 nuovi campi di golf (destinati ad inquinare non poco).
Del resto, come dargli torto se un emendamento governativo al decreto del Fare agevola la costruzione di nuovi stadi di calcio in tutta Italia unitamente a «insediamenti edilizi o interventi urbanistici di qualunque ambito o destinazione (sic!), anche non contigui agli impianti sportivi?» In parole povere ciò significa che se, a Roma, un nuovo stadio sorgerà sulla Via del Mare, «insediamenti edilizi non contigui» si potranno realizzare in tutt’altra zona, su Cassia o Flaminia. Una sorta di impazzimento urbanistico, di grimaldello ad uso degli speculatori, col quale far saltare ogni pianificazione. Un altro caso evidente di rigetto di ogni piano. A conferma che anche nelle «larghe intese» l’inquinamento berlusconiano dell’ «ognuno è padrone a casa sua» è ben presente. Dopo di che ci si conduole per le povere vittime e per i danni incalcolabili alle attività economiche. Restando a Roma, varrà la pena di ricordare che la prima area indicata dal presidente della Lazio Claudio Lotito per il suo stadio, vicino a Formello, ricade nella zona alluvionale del Tevere e prevedeva un bel po’ di cemento aggiuntivo. Lo stadio della Roma dovrebbe sorgere nell’ex Ippodromo di Tor di Valle che, realizzato in un’ansa del Tevere, si allagò alla riunione inaugurale del 26 dicembre 1959…
Di fronte a tutto ciò, come non pensare che il Belpaese sia avviato ad un suicidio, lento quanto inarrestabile? Le Regioni esistono dal 1970, ma non si è riusciti a varare una legge-quadro per l’urbanistica che le spingesse a pianificare con rigore, a risparmiare suolo, a non intaccare il patrimonio agro-forestale, ecc. Né esse vi hanno posto mano (ora lo fa la Toscana). Il ddl governativo in discussione prima della caduta di Berlusconi, elaborato da Maurizio Lupi (ora Ncd) rimasto alle Infrastrutture, era dei più pericolosi. Probabile che l’emenda- mento sugli incentivi pure agli «edifici non contigui» ai nuovi stadi di calcio sia figlio suo. Partorito mentre la tragedia della Sardegna è ancora in corso, fra grandi disperazioni. Possibile che essa non abbia insegnato nulla?
L’Unità 23.11.13
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