attualità, politica italiana

“Una soluzione debole”, di Luca Landò

Si scrive Cancellieri, si legge Letta. Il voto con cui la Camera ha ribadito ieri la fiducia al Ministro è, di fatto, un voto di fiducia al Governo nella sua rinnovata veste delle piccole intese. E non poteva essere altrimenti, dopo che il premier – partito da Olbia e atterrato direttamente all’assemblea dei deputati democratici – aveva chiesto martedì sera un sostegno, senza se e senza ma, all’esecutivo di cui il Pd, dopo l’uscita della «nuova» Forza Italia, è diventato socio di maggioranza assoluta.

Con gli occhiali da presbite – quelli per veder da vicino, molto vicino – non c’è dubbio che Enrico Letta esce rinforzato da questo voto, perché ha ottenuto quello che voleva: una prova di compattezza e di fedeltà, non solo da tutto il partito, ma anche dai tre candidati alla segreteria che pure avevano chiesto – prima Renzi, poi Civati, infine Cuperlo – che la Cancellieri facesse un passo indietro. In un teorico – ma nemmeno troppo – incontro sulle quindici riprese, diciamo che il primo round va sicuramente al presidente del Consiglio, anche se il «sindaco ribelle» ha dato di nuovo mostra di responsabilità adeguandosi, come aveva già fatto dopo la vittoria di Bersani alle primarie del 2012, alla linea del partito.

Con gli occhiali da miope, quelli per veder un po’ più da lontano, la realtà è però molto diversa. E mostra un Pd costretto a obbedire per necessità, più che per volontà, a una linea imposta dall’alto e nemmeno dal segretario del partito. Perché se è vero che Epifani ha più volte ribadito che l’unità dei Democratici andava difesa ad ogni costo, è altrettanto innegabile che nel Pd le posizioni di dissenso verso la Cancellieri hanno cominciato a crescere di giorno in giorno, tanto che c’è voluto il drammatico ma fermo richiamo del presidente del Consiglio per invitare i tre contendenti alle primarie, e non solo loro, a rimettere l’arma della richiesta di dimissioni nelle rispettive fondine.

Se questa è la situazione, è chiaro che nel Pd è in atto «un inverno del nostro scontento» che non renderà certo facile né i lavori né il cammino del governo dopo l’8 dicembre, lasciando intravvedere i fotogrammi di un possibile remake di quella carica dei 101 che abbiamo visto, non al cinema, ma al Parlamento lo scorso aprile.

Con questo paio di occhiali, la decisione di portare la ministra al voto di fiducia – esito scontato se non si voleva far cadere l’esecutivo – appare dunque come una prova di debolezza, non di forza. Soprattutto alla luce delle nuove carte spuntate, come per miracolo, poco dopo il voto di ieri. Anziché blindare il Guardasigilli, il presidente del Consiglio avrebbe dovuto far di tutto perché a quel voto non si arrivasse nemmeno, chiedendo al ministro di compiere quel passo indietro che, tra l’altro, lei stessa aveva annunciato qualora fosse stata ritenuta di peso per l’esecutivo. Una scelta difficile, lo sappiamo, perché Annamaria Cancellieri non è stata indagata per la questione delle telefonate ad Antonino Ligresti né è risultata determinante nel passaggio di Giulia Ligresti dal carcere ai domiciliari, come ha detto fin dall’inizio il procuratore generale di Torino Gian Carlo Caselli.

Il punto, impossibile da nascondere, è che in questa vicenda esiste un’ombra ingombrante. Si chiama conflitto di interessi, anche se non ha nulla a che fare con quello che conosciamo purtroppo da vent’anni e che riguarda la commistione tra politica e affari, passando per il nodo delicato e cruciale del controllo dell’informazione. Il conflitto di interessi che emerge e incombe è di altro tipo e riguarda la sfera privata e personale della signora Cancellieri, amica della famiglia Ligresti, e la dimensione pubblica e istituzionale del ministro Cancellieri. Questo, non altro, è il groviglio che il responsabile di Via Arenula avrebbe dovuto sciogliere alla Camera e che invece ha lasciato intatto dopo il suo intervento di ieri. Ma se questo, non altro, è il nodo dell’intero gomitolo, è del tutto evidente che la responsabile della Giustizia ha commesso un errore, perché proprio in virtù del rapporto di amicizia con la famiglia Ligresti e del suo attuale ruolo, il ministro avrebbe dovuto fin dall’inizio dichiarare a tutti, amici compresi, la sua impossibilità a occuparsi del caso di Giulia Ligresti, a differenza di quanto fatto in almeno altre cinquanta vicende simili come ha dichiarato lo stesso Guardasigilli. Perché se è vero che anche i ministri hanno un cuore (parole di Cancellieri) è altrettanto indiscutibile che i cittadini abbiano il diritto di essere sicuri, al di là di ogni ragionevole dubbio, che chi li amministra e li governa lo faccia obbedendo alla legge e non all’amicizia, specialmente quella con i potenti. I rapporti personali con i Ligresti, tanto per essere chiari, avrebbero dovuto essere un freno all’azione del ministro, non una sua giustificazione.

L’Unità 21.11.13

******

“Gli Standard della Moralità”, di ANTONIO POLITO
Bisognerà mettersi d’accordo sugli standard di moralità pubblica, se vogliamo uscire dall’incubo di questo ventennio. Gli italiani non ne possono più dei livelli record di corruzione, favoritismo e nepotismo; ma il mondo politico è diviso sulle sanzioni. A un estremo ci sono quelli che perdonerebbero tutti per condonare se stessi; all’altro i Torquemada che condannerebbero chiunque pur di guadagnarsi il favore popolare. In mezzo c’è il Pd. Come dimostra il caso Cancellieri, la linea di frontiera passa di lì. E non è solo frutto di tatticismo, Renzi che vuole fare le scarpe a Letta, Cuperlo che vuole farle a Renzi, più una pletora di personaggi minori in cerca di fama. C’è qualcosa di più profondo.
Una deputata democratica confessava qualche giorno fa il suo imbarazzo: «Mia madre mi ha detto che se salviamo la Cancellieri non ci voterà mai più. Mio marito mi ha detto che non ci voterà più se l’abbandoniamo». È questa incertezza sui principi a spiegare perché il Pd assomigli sempre più a un’agorà e sempre meno a un partito, una piazza dove tutti votano a piacere e molti obbediscono a impulsi esterni. In quale altro partito il segretario avrebbe rinunciato a presentarsi con una sua proposta all’assemblea che doveva decidere sulla sfiducia? C’è dovuto andare il presidente del Consiglio, per ricordare a tutti che se un partito al governo vota con l’opposizione contro il governo, non c’è più il governo. Civati l’ha definito un «ricatto», ma è l’Abc della politica.
Bisogna dunque cercare criteri per giudizi rigorosi ma equanimi, sottratti alla faziosità di quella lotta politica che, anche in assenza di atti giudiziari, non esita a sfruttare brogliacci di polizia, fughe di notizie, voci.
La prima regola è che i fatti contano più delle parole. Dopo quella telefonata — durante la quale il ministro non ha parlato come un ministro — la Cancellieri compì atti contrari ai propri doveri d’ufficio? Secondo la Procura, secondo i vertici del sistema penitenziario, e da ieri secondo il Parlamento, non li ha compiuti. Si fanno spesso paragoni con Paesi più virtuosi ed esigenti, dove i ministri si dimettono per non aver regolarizzato una colf o per aver copiato a un esame. Ma in Paesi con telefoni meno intercettati, la sanzione politica riguarda pur sempre atti effettivi, accertati, gli unici su cui può giudicare l’opinione pubblica. Sui peccati compiuti con pensieri e parole si risponde solo in confessionale, o alla propria coscienza. Anche nel diritto penale le intercettazioni sono considerate uno strumento di ricerca della prova, non la prova.
Seconda regola aurea: l’indignazione non può essere a corrente alternata. Faceva ieri un certo effetto vedere Montecitorio che si dilaniava sulle telefonate della Cancellieri e non sulle responsabilità della tragedia in Sardegna. Nei famosi «Paesi civili» sempre invocati, ci si dimette per una mancata prevenzione o un tardivo soccorso. Da noi ormai si accetta un disastro ambientale all’anno come una fatalità. Non è anche questo uno standard inaccettabile di moralità pubblica? Coloro che imputano alla Cancellieri di aver trascurato gli altri detenuti per favorirne una, sono gli stessi che (Grillo e Renzi in testa) si opposero all’amnistia proposta dal ministro per alleviare la scandalosa condizione di tutti i detenuti italiani. Quando avrà finito con i tabulati telefonici, la politica discuterà con la stessa passione del piano-carceri?

Il Corriere della Sera 21.11.13