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“Il dovere di proteggere un paese troppo vulnerabile”, di Pietro Greco

Quello che si è verificato ieri in Sardegna è stato un evento meteorologico estremo. Intenso e raro, sul Mediterraneo. Lo hanno battezzato ciclone Cleopatra ed è stato causato da un vortice di aria fredda.Quel vortice si è staccato da una grossa perturbazione proveniente dalle zone artiche e, a contatto con il caldo Mediterraneo, ha fatto sì che si formasse e si scaricasse sulla Sardegna una «bomba d’acqua». Il nome Cleopatra non ha alcun significato scientifico. E «bomba d’acqua» è una pura invenzione giornalistica. Mentre tecnicamente potremmo definire il fenomeno che ha interessato la Sardegna un ciclone: un ciclone extratropicale, per la precisione. Ma la definizione tecnica ci dice poco, perché ogni depressione atmosferica è tecnicamente un ciclone. Dunque dovremmo chiamare ciclone (anzi, ciclone extratropicale) ogni perturbazione che giunge in Italia, che porta con sé vento e pioggia e che è causata dalla bassa pressione. Il che ci aiuta a capire poco quello che è successo ieri sull’isola dove, in alcune zone, sono caduti anche 470 millimetri di acqua a causa di una pressione bassa. Inoltre per ciclone, nell’uso comune, intendiamo ormai i fenomeni meteorologici estremi che si verificano nell’Atlantico (mentre i tifoni sono quelli dell’Indopacifico). In definitiva, dovremmo stabilire una nomenclatura più chiara e precisa per dare un nome chiaro e non ambiguo a questi fenomeni meteorologici estremi che, a quanto pare, vanno aumentando per frequenza e intensità a causa dell’aumento della temperatura media del pianeta. Ma il problema nominalistico non è che l’indizio dell’impreparazione che abbiamo ad affrontare i cambiamenti climatici, con il previsto aumento, per numero e intensità, dei fenomeni meteorologici estremi. Un aumento che è già in atto. L’aumento dei fenomeni meteorologici estremi in Italia si trasforma in aumento del rischio idrogeologico a causa della vulnerabilità del Paese. Una vulnerabilità demografica – la densità della popolazione è alta – e una vulnerabilità orografica: il territorio di quello che Antonio Stoppani chiamava il Bel Paese è montuoso, collinoso e soprattutto fragile. Ma i danni causati dai fenomeni meteorologici estremi non sarebbero così alti se accanto alla frequenza dei fenomeni e alla vulnerabilità dei luoghi non si abbinasse la scarsa percezione del rischio. Facciamo troppo poco per ridurre il rischio idrogeologico e proteggere noi stessi e le nostre cose. Sappiamo che il numero di morti in Sardegna a causa del dissesto idrogeologico è più alto della media nazionale. Ma non abbiamo fatto nulla per cercare di ridurla, quella tragica frequenza statistica. Dunque, non meravigliamoci se una ottantina di terribili tornado negli Stati Uniti nei giorni scorsi abbiano fatto meno vittime di un unico evento meteo, per quanto intenso, in Sardegna. Evitare che a pagare il prezzo dell’alta vulnerabilità e della bassa percezione del rischio siano persone con la loro vita è un valore in sé. Tuttavia accanto a questo valore che non ha prezzo, cambiare nei fatti la nostra percezione del rischio idrogeologico ne ha anche uno, di valori, economico. Anzi, a ben vedere, si tratta di un doppio valore. Uno è, per così dire, passivo: se investiamo dieci, nel giro di pochi anni, otteniamo trenta o quaranta solo perché evitiamo dei danni, alle persone e alle cose. E i morti, i feriti, i danni materiali hanno un forte costo economico. Ma c’è di più. Se modifichiamo la nostra percezione del rischio e trasformiamo la vulnerabilità demografica e orografica in un’opportunità, possiamo creare lavoro. E lavoro qualificato. Abbiamo un territorio fragile? E allora iniziamo a studiarlo e a utilizzare le migliori tecnologie possibili, materiali e immateriali, per renderlo sempre più adatto a sopportare eventi estremi. Abbiamo una fragile cultura del rischio? E allora mobilitiamo i nostri esperti, ecologi, ingegneri, maestri per rafforzare il territorio; per creare sistemi coordinati di pronto allerta (early warning) e pronta azione. Si calcola che per la sola messa in sicurezza del territorio occorrano oltre 40 miliardi di euro. E che ce ne vogliano altri per creare una solida cultura del rischio. Troviamo le risorse e attiviamole. Questo è un progetto – uno dei migliori e più utili progetti possibili – per uscire dal declino avviando un percorso di sviluppo sostenibile che offre lavoro, utile e qualificato. Proviamoci. Lo dobbiamo a coloro che sono morti e ai loro figli. A noi e ai nostri figli.

L’Unità 20.11.13

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“Ora basta silenzi. Non è stata una fatalità”, di MICHELA MURGIA

Davanti a un padre morto affogato abbracciando il figlio di tre anni non si possono scrivere editoriali ponderati. Pensando a un giovane precipitato con l’auto nella voragine di un ponte, o a una famiglia annegata in un seminterrato, non vien fuori altro che rabbia: l’insensatezza di quelle perdite ammutolisce tanto quanto la campagna devastata, i paesi sfollati, i sopravvissuti ospitati in palestre e scuole elementari dove per giorni non si farà lezione.

L a Sardegna il silenzio lo sa fa re bene da sempre, tanto che è da due giorni che siamo senza parole. Le uniche che abbiamo usato sono state quelle necessarie a riconoscerci vicini, fratelli e solidali. Eppure il bisogno di dire qualcosa in più sulle ragioni di questo disastro nazionale comincia a vincere anche il più sgomento dei silenzi. Tiene sempre di meno il muro di educata omertà che vorrebbero imporci, come se fosse una prova di buon gusto non parlare di responsabilità delle morti davanti ai morti stessi. «Lasciamo a dopo le polemiche, adesso c’è l’emergenza», dirà chi aveva in carico la responsabilità che l’emergenza non si verificasse. Come se chiedere giustizia sui fatti fosse fare polemica. Come se pretendere risposte fosse un’offesa ai defunti. L’offesa vera davanti a quelle morti è altra: sarebbe affidarsi per l’ennesima volta a un dopo che non arriverà mai, come non è arrivato nelle alluvioni sarde precedenti: disastri ciclici tutt’altro che millenari, al punto che la mia generazione ne ha già viste tre. Quindi stavolta, ci dispiace, ma no: il silenzio beneducato di chi rimanda tutto a dopo non ci sta bene. Li sentiamo già mentre in giacca e cravatta dicono che l’alluvione in Sardegna è stata una terribile fatalità, un evento imponderabile, una disgrazia senza preavviso, una catastrofe fuori da ogni immaginazione, di quelle che accadono una volta ogni mille anni.

Lo diranno di sicuro – ma non lo dicono sempre? – abusando cinicamente della parola «destino» per nascondere dietro quell’alibi la responsabilità di tutte le loro ignavie. Questi signori non lo sanno che il destino è una cosa seria, fuori dalla loro portata, una cosa complessa che richiede di avere la misura del presente, il coraggio di ricordarsi del passato e abbastanza generosità per proiettare i propri sforzi nel futuro. La categoria del destino è quella che ci permette di sognare i figli, di cercare un lavoro, di costruire una casa, piantare un albero, fare un prestito a un amico e amare gli occhi di una donna o di un uomo per tutta la vita o solo per un attimo. Il destino in questi atti è un bene collettivo: non appartiene mai ai singoli, ma sempre alle comunità e vive della consapevolezza che siamo custodi della sorte altrui in qualunque nostro gesto e che quello che accade a ciascuno peserà prima o poi sulla vita di tutti. Il destino non è quindi la pioggia che cade, ma è l’argine invaso dai detriti non sgomberati. Non è il torrente che ingrossa, ma è senz’altro la casa che gli è stata costruita nel letto dove doveva scorrere. Non è il fango che scende a valle, ma di sicuro è la via chiusa tra villette a schiera che gli fa da diga dove non dovevano esserci altro che le braccia aperte della terra, pronte ad assorbire la furia del cielo.

Il destino è un progetto con nomi e cognomi e non è cieco né baro: dipende da noi. Chi oggi chiede spiegazioni non è quindi uno sciacallo inopportuno; è il sindaco lasciato solo che non tollera di sentir chiamare casualità il taglio di tutti i fondi per il piano di adeguamento idrogeologico, una decisione scellerata che appena quattro mesi fa ha lasciato i comuni senza i mezzi per curarsi del dissesto della terra. Chi chiede spiegazioni oggi è il geologo che non vuol più permettere che venga chiamata fatalità l’assenza di un piano regionale di protezione civile, anche se la Sardegna ha una legge che glielo impone dal 1989: in questi ventiquattro anni ci sono state molte alluvioni, l’ultima appena cinque anni fa con quattro morti, ma nessuna giunta regionale ha mai trovato il tempo di farlo. Il destino non è il futuro, questo ci piacerebbe dire ai signori con la giacca e la cravatta che lo stanno usando come alibi, però lo costruisce, prevedendolo. Peccato che la prevenzione non porti alcun consenso politico: è risparmio, non spesa, quindi non fa rumore, non procura alcuna audience emotiva, non ripaga nell’urna. La disgrazia invece vale molte cose: fondi in gran quantità, appalti per la ricostruzione e soprattutto occhi chiusi sulle responsabilità, sempre ipocritamente chiesti in nome del rispetto dei morti. I sardi e le sarde, che oggi hanno dato di sé stessi al mondo una prova di solidarietà che avrebbero di certo preferito risparmiarsi, se guardano l’orizzonte forse non vedranno solo le nubi ancora cariche di pioggia, ma anche il tramonto di un modello di sviluppo fondato sul mattone e sulla speculazione. Davanti a questa evidenza, pagata a prezzo carissimo, la comunità di destino che insieme rappresentiamo non può chiedere a sé stessa l’ennesimo silenzio.

La Stampa 20.11.13