attualità, memoria, politica italiana

“Due giorni intensi che non potrò dimenticare”, di Eugenio Scalfari

La scissione del Pdl e la nascita di quella che noi chiamiamo la destra repubblicana rappresenta una novità di grandissimo rilievo nel panorama della politica non soltanto italiana ma anche europea.
Il governo Letta ne esce rafforzato perché scompare la presenza di Berlusconi e del berlusconismo dalla maggioranza. La prima conseguenza riguarda l’essenza stessa del governo Letta- Alfano. Finora infatti si trattava d’una situazione di necessità anche se, con l’ipocrisia che a volte è politicamente indispensabile, molti si ostinavano a chiamarlo di “grandi intese”. Ma dopo la scissione Letta- Alfano consente anche quelle intese per realizzare le riforme e gli interventi che la crisi europea richiede.
I partiti che ora compongono la nuova maggioranza senza Berlusconi debbono tener conto di questa novità e comportarsi di conseguenza. Soprattutto il Pd che ora è la maggiore forza politica non solo alla Camera ma anche al Senato.
Non mi diffonderò più a lungo su questo tema del quale da tempo il nostro giornale auspicava la realizzazione. In un futuro ancora lontano anche in Italia una destra moderata e liberale disputerà il potere con una sinistra liberal-socialista; ma nel frattempo entrambe sono impegnate insieme per riformare lo Stato e l’assetto europeo all’insegna del lavoro e dello sviluppo
economico.
* * *
Ora però il tema di questo articolo sarà un altro. Accadono a volte per puro caso delle giornate particolarmente intense, punteggiate da incontri che ti emozionano e ti suscitano una scia di ricordi e di pensieri che dal passato si riflettono sul presente e disegnano un ancora incerto futuro.
A me è accaduto tra giovedì e venerdì, a Roma prima e poi a Milano.
A Roma giovedì mattina ero, insieme a molte altre persone, al Quirinale dove si è svolto l’incontro ufficiale, ma in parte anche riservato, tra il presidente Napolitano e papa Francesco. Non si è parlato certo di teologia, ma di politica, in pubblico e in privato.
Il Concordato – del quale Napolitano ha ricordato l’inserimento nella nostra Costituzione che fu opera dell’Assemblea Costituente con il voto favorevole della Dc e del Pci e quello contrario dei socialisti, del Partito d’azione e dei liberali – assicura la leale collaborazione tra lo Stato (laico per definizione) e la Chiesa cattolica nelle loro due distinte sfere della politica e della religione.
Questa situazione dura dal 1947 ma c’è da qualche mese un’importante novità: la Chiesa non prenderà più iniziative “parapolitiche” né tramite la Segreteria di Stato vaticana né attraverso la Conferenza episcopale italiana.
Di fatto questo non era mai accaduto per secoli e secoli, anche dopo la caduta del potere temporale verificatasi il 20 settembre del 1870 con la conquista di Roma da parte dei bersaglieri. Il potere temporale era rinato sotto altre spoglie.
Ora Francesco ha messo il fermo. La Chiesa predica il Vangelo ed esorta all’amore del prossimo; questo e solo questo è il suo compito, in Italia come nel resto del mondo. Un compito molto impegnativo che servirà (dovrebbe servire) anche alla politica per attuare con i propri strumenti la stessa visione: solidarietà, tutela dei diritti, rispetto dei doveri, libertà e giustizia.
La libertà riguarda anche la Chiesa di Francesco che ha teorizzato in varie occasioni la libertà di coscienza dei cristiani come di tutti gli altri uomini e la loro libera scelta tra quello che ciascuno di loro ritiene sia il Bene e quello che ritiene sia il Male. E portando avanti il Vaticano II ha deciso di dialogare con la cultura moderna.
Tutte queste questioni estremamente significative hanno echeggiato nelle sale del Quirinale e così si spiega l’amarissima constatazione di Napolitano che, di fronte a queste mete da perseguire, ha denunciato la situazione politica italiana, ammorbata da spirito di parte, interessi di gruppi e diffusione di veleni.
Ne abbiamo purtroppo conferma tutti i giorni e lì, nelle sale d’un palazzo che fu sede prima dei Papi, poi dei Re d’Italia e infine dei presidenti della Repubblica, erano presenti i vertici del governo, del Parlamento, dei partiti e delle gerarchie della Chiesa. Papa e Presidente hanno dato testimonianza del cammino ancora da compiere e della loro decisione di stimolarne con gli strumenti a loro disposizione il completamento.
Personalmente ne sono uscito assai confortato.
* * *
Milano è città assai diversa da Roma. Ci ho vissuto a lungo negli anni Cinquanta e poi l’ho sempre assiduamente frequentata. Ne fui consigliere comunale dal ’60 al ’63 e deputato dal ’68 al ’72; ma a Milano ci sono sempre state le redazioni dell’Espresso (dal 1955) e di Repubblica (dal 1976).
Venerdì scorso ho avuto modo d’incontrare nel corso di una cena in piedi una quantità di amici d’un tempo e di rievocare con loro la Milano di allora.
Qual era la Milano degli anni Cinquanta e Sessanta? Quella della ricostruzione e poi del «miracolo italiano » nelle sue classi dirigenti politiche ed economiche? Chi erano gli esponenti di quei partiti, di quei sindacati, di quel capitalismo e di quella classe operaia? C’erano parecchi dei loro figli a quella cena dell’altro ieri: la figlia di Bruno Visentini, il figlio di Carlo Draghi, il figlio di Raffaele Mattioli, Maurizio, il figlio di La Malfa, la figlia di Aldo Crespi, la moglie e i figli di Franco Cingano. Io conoscevo i padri, ma poi ho incontrato anche loro e ne sono diventato amico. Sono i vantaggi, per mia fortuna, d’una lunga vita.
Adesso (lo dico tra parentesi) mi preparo a ritirarmi su una panchina del Pincio come mi ha consigliato Beppe Grillo, ma la data non l’ho ancora decisa e Grillo dovrà pazientare ancora un poco.
I cardini del capitalismo milanese d’allora, che forniva al paese gran parte della sua visione degli interessi ma anche dei valori d’una borghesia agiata e al tempo stesso colta, erano una singolare mescolanza d’imprenditori, banchieri e uomini politici e se dovessi indicarne il personaggio più rappresentativo di quella mescolanza farei il nome di Mattioli.
Era abruzzese di nascita, aveva esordito come segretario di Toeplitz; aveva assistito alla crisi bancaria del ’32 e poi aveva preso il posto di amministratore delegato. Era stato il rifondatore della Comit (si chiamava così la Banca commerciale italiana) che era diventata con lui la più importante in Italia e una delle più importanti in Europa.
Ma Mattioli finanziava anche l’editore Riccardi che pubblicava in una splendida collana i classici della letteratura italiana; finanziava anche l’Istituto di studi storici fondato a Napoli da Benedetto Croce, dal quale
uscirono personaggi come Omodeo, Calogero, Salvatorelli, Romeo, De Capraris.
Era amico di Sraffa, emigrato durante il fascismo a Cambridge e depositario per molti anni delle carte di Gramsci e del suo testamento.
La sera, terminato il lavoro, Mattioli teneva salotto nel suo studio alla Comit in piazza della Scala. Durava un paio d’ore e gli ospiti abituali erano Adolfo Tino che era stato uno dei dirigenti del Partito d’azione durante la Resistenza e che fu poi presidente di Mediobanca; Franco Cingano che era uno dei massimi dirigenti della Comit di cui poi diventò amministratore delegato; Leo Valiani. Ugo La Malfa e Bruno Visentini frequentavano il salotto Mattioli quando venivano da Roma a Milano e altrettanto faceva Elena Croce, figlia di don Benedetto, ed Elio Vittorini.
Mattioli a quell’epoca somigliava a Maurice Chevalier, l’attore francese. O almeno così pareva a me e un giorno glielo dissi. Lui si schermì ma da allora mi volle più bene di prima.
Ma in quegli stessi anni il capitalismo milanese era anche rappresentato da Leopoldo Pirelli, dai giovani membri della famiglia Bassetti, da Vincenzo Sozzani e soprattutto da Cuccia (Mediobanca) e Rondelli (Credito italiano).
Ricordo ancora che uno degli obiettivi di La Malfa, anzi il senso stesso della sua vita, era quello di cambiare la sinistra e il capitalismo. Li conosceva bene tutti e due, anzi era con un piede in una e un piede nell’altro. Lo stesso, nel suo medesimo Partito repubblicano, era l’obiettivo di Visentini e tutti e due videro con speranza e poi con giubilo l’arrivo di Berlinguer alla guida del Partito comunista.
Questo era allora il capitalismo, soprattutto nella sua proiezione bancaria ma non soltanto, e la sinistra riformatrice che aveva Gobetti e i fratelli Rosselli nel suo Dna ma si era anche nutrita del pensiero liberale di Croce e di Luigi Einaudi. Non dimentichiamoci che quest’ultimo fu il primo governatore della Banca d’Italia dopo la caduta del fascismo, poi ministro del Bilancio con De Gasperi e infine primo presidente della Repubblica.
Napolitano, militante e poi dirigente del Pci, deriva direttamente dalla cultura di Croce e di Einaudi. Adesso queste cose sembrano assurdit à, ma allora la realtà era quella e fu quella a fare dell’Italia una democrazia
e del capitalismo un sistema che apprezzava e sosteneva lo Stato sociale, il welfare e l’economia sociale di mercato.
Poi dalla fine dei Sessanta in giù, la situazione è cambiata, la partitocrazia ha occupato le istituzioni, una piccola parte della sinistra ha inclinato verso il terrorismo, mentre un’altra parte si è corrotta insieme al ventre molle della Dc e il capitalismo ha cambiato natura. Invece di costruire imprese, le ha dissanguate. Il capitalismo reale ha ceduto il posto alla finanza speculativa. I legami tra affari e politica non furono più culturali ma corruttivi e intanto il popolo sovrano diventava “gente”, folla emotiva, materiale umano disponibile per i demagoghi e gli avventurieri.
Questo è purtroppo il paese. L’incontro con i discendenti del periodo migliore del Novecento mi ha al tempo stesso dato conforto e profonda tristezza, sperando che i figli emulino i padri ma disperando che riescano a educare la gente e farle riscoprire il popolo sovrano che è tutt’altra cosa.
Vorrei tanto che i giovani s’innamorassero di quest’idea ma se continuano a preferire l’avventura e gli avventurieri, allora non saremo più una nave ma una zattera con quel che ne segue. * * * Poi, prima di ripartire per Roma, la sera sono andato con mia moglie allo spettacolo di Nicoletta Braschi al teatro Parenti. Il programma era un testo di Samuel Beckett intitolato “Giorni felici”. Nicoletta è una grande attrice di teatro, il testo da lei recitato è terribile ma splendido nella sua terribilità. Poi abbiamo cenato insieme a lei e a suo marito Roberto Benigni, con Franco Marcoaldi e Nadia Fusini.
Una volta scrissi che Benigni, quando Napolitano se ne andrà anche lui sulla panchina del Pincio come auspica Grillo, potrebbe benissimo andare al Quirinale.
Naturalmente era una battuta ma la cultura di Roberto e di Nicoletta è tremendamente seria e quello che pensa e come ama il nostro paese Benigni è esattamente quello che penso ed amo anch’io. Non siamo molti ma, come dice Beckett, la vita è fatta di poche cose. L’importante sarebbe di saperle scegliere e spero che questo avvenga.

La Repubblica 17.11.13

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