Il Mooc è tra noi, portato qui — come Twitter, come il frisbee — dal Nordamerica. È il “Massive open online course”, e si traduce corsi universitari in rete. Le università di Harvard e Stanford, il Massachusetts Institute of technology, Georgetown in Washington Dc hanno corsi online. L’ottanta per cento degli atenei privati e pubblici degli Stati Uniti ha corsi online, spesso acquistati “chiavi in mano” dalle scuole più prestigiose. Si studia su Internet, si danno esami su Internet, si discutono tesi via Skype. Il materiale di studio è spesso creato ad hoc, le lezioni video sono di pochi minuti e focalizzate su un concetto o un argomento, a volte seguite da quiz per valutare la comprensione.
Le lezioni vengono poi integrate con scritti, diapositive, materiali presi dal web. Il fenomeno — che aiuta chi lavora, chi attende un figlio, chi vuole riprendere in mano un piano di studi abbandonato — tocca cinque milioni di persone nel mondo. Tre milioni negli Stati Uniti. In Francia, per paragone, solo il tre per cento delle scuole d’eccellenza ha corsi online. Francois Hollande e il suo ministro Geneviève Fioraso hanno appena varato un piano di sviluppo nazionale della eeducation ambizioso: Fun, si chiama, la sua piattaforma è basata sulla tecnologia Google e il finanziamento iniziale è di 12 milioni di euro.
Ci sono piattaforme nascenti o singoli atenei virtuali in Inghilterra, in Germania, in Spagna. L’esperto (lui francese) Gilles Babinet predice: «Tra qualche anno le università tradizionali saranno finite com’è successo con i monaci, custodi della conoscenza per secoli, dopo Gutenberg». Questa profezia converge con le speranze di Umberto Eco che, insignito della laurea honoris causa a Burgos, ha chiesto alle università di domani di «tornare a essere solo per le élite, come accadeva nella loro epoca migliore ». Le masse stanno virando su altre forme di conoscenza, ecco.
Il fenomeno Mooc galoppa nel mondo, nelle praterie che apre, per ò, ancora non si è vista la preparazione d’eccellenza. Sarà il futuro, ma, come molte cose online, non ha la profondità né la certificabilità del sapere tradizionale. La scuola centrale di Nantes già l’anno scorso ha servito milletrecento studenti via Internet, davano esami dalle loro camere in Canada, in Martinica, in Madagascar. In Europa undici Paesi europei, con l’aiuto della Commissione europea, hanno unito le forze per lanciare la prima iniziativa di corsi aperti e di massa: saranno quaranta, disponibili gratuitamente in dodici lingue (arabo compreso). Per l’Italia il partner di riferimento è la telematica Uninettuno di Roma. Chi chiederà la certificazione a fine corso, dovrà pagare tra 25 e 400 euro. «Nei prossimi cinque anni le università online conosceranno un’esplosione di iscritti, è necessario evitare che finiscano nelle mani sbagliate», dicono fonti del governo francese. La posta è alta. Le due piattaforme nordamericane — Coursera ed EdX, fondate da due professori d’informatica di Stanford e del Mit — hanno investito rispettivamente 43 e 60 milioni di dollari.
Solo la californiana Stanford ha attratto a sé 160 mila studenti da 195 Paesi del mondo (professional, pensionati, mamme con bambini). In 23 mila si sono laureati.
In Italia il fenomeno è cresciuto senza aiuti né ragionamenti di Stato, con l’autonomia anarchica tipicamente nostra. Le desolanti esperienze alla Cepu, con campioni del calcio e del motociclismo assoldati solo per pubblicizzare corsi a cui non avrebbero mai partecipato, hanno oscurato il fatto che per dieci anni nel nuovo settore della conoscenza c’è stata crescita anche da noi. Erano 1.500 gli iscritti nell’autunno 2003, oggi sono 44.856. La prima telematica, certificata dal ministro Letizia
Moratti il primo marzo 2004, fu la romana Guglielmo Marconi, oggi non a caso la più grande con 15.635 iscritti. La Marconi ha consentito all’attuale ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza di prendere l’abilitazione, poi lei ha proseguito la carriera di ricercatrice-docente- rettore alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa. Si è laureato alla Marconi anche Carmine Schiavone, il figlio del camorrista Sandokan. Per dodici stagioni le telematiche hanno visto crescere gli studenti a una media del 46 per cento l’anno, ma nel 2012 c’è stata la frenata. Di più, la decrescita. Gli iscritti nella stagione 2012-2013 sono cresciuti un po’ (il 3,7%), ma le immatricolazioni al primo anno sono fortemente arretrate: in calo del 38,2 per cento. E le matricole telematiche rappresentano l’uno per cento di tutte le matricole universitarie.
Nell’anno 2013-2014 le università open fin qui accreditate — l’ultimo rapporto Anvur, l’Agenzia di valutazione universitaria, è sulla scrivania del ministro Carrozza per le considerazioni finali — sono dieci. Erano undici l’anno scorso. È uscita dal novero la Italian university line, il progetto più promettente perché nato per volontà di cinque atenei pubblici, naufragato sulla mancanza di progetti comuni, finanziamenti adeguati e un sincero interesse al destino dell’esperimento di e-learning. Sono stati soppressi i corsi del primo anno — carenza di insegnanti — proseguono per esaurimento dal secondo anno in su. A fine 2012 i valutatori di Anvur della
Iul dicevano questo: «Se il suo bacino potenziale è ampio, in pratica le iniziative fin qui prodotte hanno coinvolto un numero ristrettissimo di studenti». La napoletana Pegaso, 385 convenzioni e accordi di tirocinio stipulati (con l’Università del Molise, con atenei lituani, ucraini, albanesi, con Asl e ordini professionali), dal report di fine 2012 usciva male: «La crescita del numero di iscritti non è accompagnata da un adeguato livello della didattica e da criteri di selezione rigorosi per gli esami e la tesi finale. Rischia di produrre titoli legali il cui contenuto non è comparabile con quello delle altre istituzioni universitarie ». Tre videolezioni valgono un credito formativo. Un creditificio, utile a far crescere i bilanci dei fondatori e le carriere lavorative di chi, gi à con un mestiere, si iscrive all’università telematica. Nel 2011 i laureati Pegaso sono stati un’inspiegabile enormità, nel 2012 le immatricolazioni sono scese a diciannove.
Dei cinquanta nuovi corsi proposti dalle dieci telematiche private, nel 2013 l’Anvur ne ha valutati tredici bocciandone nove. Diverse accreditate hanno ricevuto giudizi trancianti, altre segnalazioni di conflitti d’interesse (le romane San Raffaele e Universitas mercatorum). Molte realtà online si stanno consorziando, o comunque stanno stringendo accordi con università tradizionali. La Giustino Fortunato di Benevento, il cui rettore è l’ex ministro Augusto Fantozzi e la cui specializzazione è Giurisprudenza, ha convenzioni su singole borse di studio
con l’Università di Bari e la spagnola Università de Cantabria. È lo stesso ministero a spingere ad affiancare l’e-learning italiano all’insegnamento tradizionale: ci sono 5 milioni di euro pubblici per le università che si federeranno con strutture accreditate per l’e-learning. La D’Annunzio di Chieti e Pescara lo scorso maggio ha votato l’assorbimento della telematica e boccheggiante Leonardo Da Vinci. Si sono astenuti il preside di Lettere e il direttore del dipartimento di Studi classici, timorosi dei debiti accumulati dalla privata.
Com’è naturale, anche gli atenei tradizionali italiani, stretti tra bilanci complicati, si stanno affacciando al mercato dei Mooc. Ventinove atenei su sessanta hanno inaugurato corsi online in proprio. Tutti, però, prevedono esami frontali e discussioni delle tesi da svolgere in sede. A Tor Vergata i due corsi di laurea in Ingegneria (online) valgono 180 crediti. Alla Ca’ Foscari di Venezia 436 docenti hanno prodotto e caricato sul sito d’ateneo 14 mila file didattici e gli studenti possono verificare con test di autovalutazione la loro preparazione evitando bocciature a sorpresa. Alla Statale di Milano e a Verona si usa il podcast (registrazioni riascoltabili con l’iPod): 18.000 gli studenti attivi. Alla Bicocca, Scienze umane per la formazione e Biostatistica, 19 mila studenti di ritorno si collegano tra le sette e le otto di mattina per studiare senza frequentare. Poi
vanno al lavoro.
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“Esami farsa e test copiati” un prof telematico accusa, di FABIO TONACCI
Dalle sedi esterne arrivano compiti d’esame copiati parola per parola dalle stesse mie dispense. Nemmeno si disturbano a cambiare le virgole. La metà dei testi è palesemente copiata. E il risultato qual è? Che chi studia alle telematiche si prende in poco tempo una laurea che ha lo stesso valore legale delle altre, ma con uno sforzo minimo rispetto alle università pubbliche». Chi parla non è un professore statale precario con dei macigni nelle scarpe da togliersi, né un ricercatore rancoroso e sottopagato. È un insegnante dispiaciuto da quello che vede accadere ogni giorno e da quello che ogni giorno i suoi studenti gli riportano. Amareggiato al pensiero di quello che potrebbero essere le università telematiche e che invece, in Italia, non sono. «Erano nate con un intento nobile: offrire un percorso di laurea a persone di una certa età e ai lavoratori che potevano studiare solo la sera. Ma qualcosa non è andato come doveva ».
Paolo, lo chiameremo così per garantirgli l’anonimato, consegna a
Repubblica la sua testimonianza. Un racconto dettagliato che parte dall’esperienza personale nell’istituto privato dove lavora da alcuni anni, l’Università degli Studi Niccolò Cusano di Roma, ma che si allarga a tutto l’universo delle telematiche. Partendo da quello che succede durante le sessioni d’esame. «Il decreto Profumo del gennaio 2012 ha s ì permesso lo svolgimento degli esami fuori sede, ma davanti a una commissione costituita ad hoc con il docente della materia. Invece la Unicusano manda i suoi docenti in poli esterni e centri d’ascolto sparsi in tutta Italia per sessioni in materie che non sono di loro competenza». A volte nelle commissioni ci sono membri esterni all’università o tutor. Così da alcune sedi, ad esempio Siderno, Agrigento, Palermo, Carmiano in provincia di Lecce, Cagliari, Catania, Catanzaro, Palmi e Caltanissetta, arrivano esami copiati parola per parola. Da Wikipedia, da Google, dalle dispense degli insegnanti, dicono gli studenti. «Qualche professore ci boccia, altri lasciano passare».
Ora, nessuno davvero pensa che questo accada solo lì. Lo studente impreparato che si affida all’ultimo minuto alle disperate e sofisticate “tecniche” per copiare, c’è sempre stato, e sempre ci sarà. Questo sistema di vigilanza, considerato troppo blando, viene rigettato dalla Unicusano, interpellata sul punto. «Non è assolutamente così, le commissioni sono composte secondo quanto prevede la norma e per i controlli nelle sedi esterne a volte ci affidiamo pure a militari della guardia di finanza in pensione». Resta da spiegare però la percentuale così alta di testi d’esame copiati. «Lo studente paga e viene trattato come il cliente che ha sempre ragione», riflette Paolo. La Unicusano — dati alla mano — è una delle università telematiche più frequentate d’Italia. Ha 11mila iscritti e la retta annuale è intorno ai 2.500 euro. Con la piattaforma multimediale consente di seguire lezioni videoregistrate e in videoconferenza, scaricare manuali e slides definite «vere e proprie mappe concettuali», fare test di autovalutazione. A questo, affianca l’insegnamento tradizionale nelle aule del suo campus, immerso in sei ettari di parco a Roma. Appoggiandosi a 37 docenti, tra cui 2 professori ordinari, 3 associati, 25 ricercatori a tempo indeterminato.
Alla Unicusano, però, la biblioteca non arriva a 300 libri e l’unico database è quello della Ebsco, per alcuni troppo piccolo per fare ricerche di un certo respiro. I ricercatori sono relegati a fare da tutor agli studenti. Alla Unicusano è prevista la loro presenza in sede di 120 ore mensili, quando la legge Gelmini ha fissato un tetto massimo di 350 ore annue. La questione è stata oggetto di un ricorso al Tar del Lazio, che ha dato ragione alla Unicusano. La quale nella classifica Vqr, Valutazione qualit à ricerca dell’Anvur, si è piazzata al sessantesimo posto, trentesima in alcune discipline. «Siamo l’unica telematica a fare ricerca », ricordano dal rettorato.
Rimane però il dubbio che laurearsi frequentando una telematica sia troppo più facile, quindi meno formativo, che in un ateneo tradizionale. Un corso online è fatto di dispense e video lezioni, che però spesso non aggiungono niente al testo scritto. Per un esame che vale dieci crediti formativi bisogna studiare in media un centinaio di pagine di dispensa preparata dal professore. Per laurearsi servono 180 crediti, quindi un iscritto a una telematica deve studiare circa 18mila pagine. «Ai miei tempi», conclude Paolo, «con il vecchio ordinamento, prima dell’introduzione del 3+2, un universitario studiava in media 180mila pagine. Dieci volte di più ». Con le telematiche, ti puoi laureare senza leggere mai un classico.
La Repubblica 14.11.13