Allora la Commissione europea esiste! Ieri forse per la prima volta abbiamo assistito a un buon uso dei nuovi poteri che con la crisi sono stati affidati all’esecutivo guidato da José Barroso. Quel poco di governo comune indispensabile per tenere insieme l’area euro si realizza proprio così: rimproverare anche i Paesi più forti, non solo – come è troppo facile – quelli più deboli. Un aiuto importante, a dire il vero, lo avevano dato gli Stati Uniti, con le loro critiche alla Germania di due settimane fa. Ma molto altro andrà fatto, nei prossimi mesi, per frenare quelle dinamiche politiche profonde che stanno allontanando tra loro le tre maggiori nazioni dell’euro, Germania Francia e Italia.
I tedeschi stanno già reagendo con dispetto alle critiche della Commissione verso il loro enorme surplus nei conti con l’estero. «I Paesi deboli ci vogliono far diventare inefficienti come loro» diranno in molti. Nelle ultime elezioni, a stragrande maggioranza gli elettori hanno scelto partiti responsabili; ma a sviluppare discorsi irresponsabili sono gruppi di potere forti, presi da un nazionalismo economico di cui non si scorge bene l’obiettivo.
Il successo tedesco nell’export industriale è meritato. Ma ha accumulato in poche mani capitali ingenti che non vengono investiti dentro il Paese (i nazionalisti estremi danno anche di questo la colpa all’euro), anche perché il settore dei servizi è rigido e poco efficiente. Anni di moderazione salariale hanno reso i lavoratori ultrasensibili all’inflazione e alle tasse; facile fargli temere che la cooperazione con i Paesi deboli implichi altri sacrifici.
In realtà la Germania deve imparare a star meglio con sé stessa, a sfruttare appieno, a favore di tutti i tedeschi, le prestazioni straordinarie della sua industria. In quel senso vanno i consigli che gran parte del mondo esterno gli rivolge; e che non possono esser fatti passare come una richiesta di elemosina dal Meridione latino. A che serve guadagnare esportando, insomma, se non si sanno trovare sbocchi produttivi per tutti quei soldi? Prima della crisi li avevano messi nell’immobiliare irlandese o spagnolo, ora fuori dall’area euro, chissà dove nel mondo.
A Parigi, invece, la politica appare paralizzata. Il Paese cerniera tra forti e deboli dell’euro sarebbe il più adatto a indicare come andare avanti tutti insieme; non ne è capace. Certo, se l’economia della Francia avesse tutte le pecche che gli vedono i tedeschi, sarebbe al collasso da un pezzo; invece sta in piedi. Ma anche lì si moltiplicano i segni di un declino, sia pure a un passo molto più lento di quello italiano. Come è tipico della storia francese, il malcontento potrebbe esplodere tutto d’un tratto, a sorpresa.
Tutti e tre i Paesi sono esposti alla tentazione di trovare capri espiatori all’estero. Nel caso tedesco, il fardello dei Paesi deboli dell’euro; nel caso francese, le riforme sgradite che l’Europa suggerisce; nel caso italiano, i vincoli di bilancio imposti dalle regole del «Fiscal compact». In tutti e tre i casi si tratta di falsità che coprono gravi colpe interne. Nel nostro caso, il tetto del 3% al deficit lo avevamo violato in tutti gli anni dal 2001 al 2006, senza visibili benefici.
L’azione europea a carico della Germania serve a mostrare che di obblighi verso i Paesi vicini ne esistono per tutti. Ieri il governo italiano, nella sua fragile condizione politica, è riuscito a presentare la legge di stabilità 2014 come il minor male rispetto a tutte le possibili alternative. Ma chi da Bruxelles vede la bassa qualità degli emendamenti presentati può ben dirci che i vincoli europei ci stanno soprattutto impedendo di farci male da soli.
La Stampa 14.11.13