Scale che ripartono da dove iniziano, labirinti che evocano prospettive impossibili e circuiti infiniti. Volendo visualizzare il dibattito tortuoso sulla riforma della legge elettorale l’unico paragone che appare adatto è con i quadri di Escher. Un rompicapo e un enigma che incrocia prospettive politiche e scenari inusitati.
Si dice letteralmente «sconcertata», ad esempio, Lorenza Carlassarre, professoressa emerita di diritto costituzionale a Padova, passata dalla commissione dei saggi voluta del presidente Napolitano, da cui si è dimessa, in prima fila nell’associazione Libertà e Giustizia insieme a Gustavo Zagrebelsky. Proprio perché, a suo dire, «tutto è sovvertito, siamo in una situazione tale, con questo governo che non è negli schemi di un governo parlamentare di nessuna democrazia rappresentativa perché rappresenta gli opposti, forze che non possono esprimere una linea politica comune», che non è del tutto da escludere l’idea che il governo, di fronte al perdurare di uno stallo parlamentare sulla legge elettorale, possa intervenire per decreto. Per Carlassarre i requisiti richiesti la necessità e l’urgenza «ci sono tutti».
Stefano Ceccanti, costituzionalista del Pd vicino a Renzi, esclude il caso come «impraticabile». E snocciola: «In base all’articolo 74 ultimo…» e continua «in base alla legge 400 dell’88…». Insomma, è materia esclusiva del Parlamento, il governo non può entrarci. Anche se, ammette «il punto è politico». Se esiste una maggioranza parlamentare per cambiare la legge non c’è bisogno dell’intervento del governo, se non c’è la maggioranza, il decreto non è convertibile in legge.
È ancora più duro Pier Alberto Capotosti, ex presidente della Corte Costituzionale. Alla domanda se il governo può intervenire per decreto, risponde: «No, assolutamente». Lui non vede neanche la necessità e l’urgenza. Ma ciò che lo rende irremovibile è il sospetto che come un’ombra si insinuerebbe tra scale e corridoi del palazzo. «Il sospetto che il governo potrebbe fare una legge per sé, per perpetuarsi». E poi lo snaturamento del rapporto tra Parlamento e governo. Prevalendo il potere di quest’ultimo si metterebbe a rischio anche la forma di governo. «Forse non sarebbe anticostituzionale ma credo che il Quirinale avrebbe difficoltà a firmare una tale forzatura», ritiene Capotosti.
Però il tempo corre, si deve fare presto, l’ha detto Napolitano ieri, perché il giudizio della Consulta, atteso il 3 dicembre, è vicino. Cosa potrebbe decidere la Corte? Potrebbe abrogare in toto il Porcellum e far rivivere la legge precedente, il Mattarellum? Il no a questa ipotesi la «revivescenza» accumuna l’opinione dei costituzionalisti. Carlassarre, Capotosti, ma anche il «saggio» Luciano Violante, che la vede come «un’operazione troppo ardita». Ceccanti poi pensa che l’Alta corte non metterà proprio mano al Porcellum, si limiterà a proferire un monito e a indicare i nodi da risolvere. Monito che il Parlamento potrebbe disattendere e allora di fronte ad uno scioglimento delle Camere si tornerebbe di nuovo al voto a cavallo del «porco». Comunque per Ceccanti «sarebbe un’attività di supplenza anomala se la Corte si mettesse a riscrivere la legge».
LEGITTIMITÀ PARZIALE
L’opinione prevalente è invece che, se la Corte vorrà addentrarsi nei meandri della «porcata» di Calderoli, lo farà con una dichiarazione di legittimità parziale, annullando cioè solo le parti viziate come l’iper-premio di maggioranza senza soglia minima. Caldassarre e Capotosti spiegano che sarebbe esattamente nei compiti della Consulta e non obbligherebbe il Parlamento a rimettere le mani alla legge. «La parte residua, non toccata spiega Capotosti sarebbe come una nuova legge elettorale in grado di essere applicata subito». Sarebbe ripristinato un sistema proporzionale con soglie d’ingresso dal 2 al 4 per cento.
Negli scenari elaborati dai saggi, spalmando voti delle ultime elezioni con il Mattarellum, non ci sarebbe una maggioranza né alla Camera né al Senato perché un sistema tendenzialmente maggioritario con tre poli aggreganti non può funzionare e si avrebbe una geografia a macchie dai collegi uninominali: tre aree con diversi vincitori a seconda del maggior radicamento delle varie forze. Utilizzando invece una correzione parziale del Porcellum il cosiddetto «Super Porcellum», con un premio di maggioranza del 40-42 per cento e l’impianto proporzionale una ripartizione di seggi su tre poli probabilmente non farebbe vincere nessuno perché nessuno riuscirebbe a raggiungere la soglia. È in virtù di questa analisi che tanto Violante quanto Ceccanti, e con loro l’intero Pd, propendono per l’aggiunta di un secondo turno di ballottaggio su scala nazionale tra le due coalizioni maggiori, una sorta di spareggio con in palio il premio di maggioranza. Un sistema non molto dissimile a quello dell’elezione a sindaco nei Comuni.
Luciano Violante non è affatto convinto che non si possa raggiungere questo obiettivo, contenuto nell’ordine del giorno non approvato ieri dalla commissione Affari costituzionali del Senato, cabina di regia dei tentativi di riforma. Per Violante quella bocciatura ha un valore relativo e nessuna conseguenza. «Non c’è alcuno stallo del Parlamento dice ma solo del Senato». Perciò prima di arrivare «come ultima ratio, perché sarebbe una grave prova di impotenza del Parlamento» a un decreto sulla legge elettorale, ci sarebbero almeno altri due tentativi da fare. Primo: riproporre a Palazzo Madama un’intesa su tre cardini della nuova legge: scelta diretta dei rappresentanti da parte del cittadino-elettore, parità di genere, una maggioranza chiara che esca dalle urne. Se neanche su questo libro di intenti si dovesse trovare un accordo in grado di andare avanti, si potrebbe passare la camera di regia alla Camera, dove una maggioranza c’è. «A quel punto è il ragionamento di Violante con un testo già approvato da un ramo del Parlamento, si assumerebbe una grave responsabilità chi al Senato ne cercasse di impedire l’approvazione definitiva».
Per Capotosti però non è affatto detto che il Senato, nella sua piena autonomia, si senta condizionato a rispettare il voto della Camera. Inoltre, ricorda, «le leggi elettorali se non all’unanimità devono essere espressione della più larga maggioranza possibile, non funzionano se vengono da una prova di forza». E aggiunge: «Prova ne sia il Porcellum, legge approvata a maggioranza ricorda Per questo che non funziona».
L’Unità 13.11.13