Gli scontri all’interno della corte berlusconiana sembrano svolgersi in una cornice da ancien régime: chi viene cacciato dal re subisce l’ostracismo e l’esilio, e per lui non c’è altra sorte della solitudine e della miseria. Il Cavaliere ha evocato la fine mesta della ribellione di Gianfranco Fini per esorcizzare l’ipotesi di una scissione da parte dei “governativi” di Angelino Alfano. Ma è rimasto fermo allo schema vincente del dicembre 2010, quando si affermò per una manciata di voti. E rimuove i dati di realtà emersi in questi ultimi anni.
Il primo fatto dissonante riguarda il diverso assetto politico rispetto a tre anni fa. Allora Berlusconi era a capo del governo e gestiva tutte le risorse che derivavano da tale posizione. Abbandonare il Cavaliere in quella fase comportava un allontanamento dal locus del potere. Di fronte ad un Pd ancora ripiegato su stesso per le ferite della sconfitta elettorale e per gli strascichi del passaggio di consegne da Veltroni a Bersani via Franceschini, Berlusconi appariva il Re Sole della politica italiana.
In secondo luogo, Gianfranco Fini non solo veniva da un’altra storia, ma indicava una via nuova, ideologicamente lontana dal populismo forzaleghista, ancora in gestazione e non ben compresa – e forse nemmeno tanto appetibile – ad un mondo cresciuto all’ombra del Cavaliere. In più, era curioso e di difficile metabolizzazione che l’ex-fascista scavalcasse a sinistra il “campione della libertà”. Tutto questo disorientava l’elettorato moderato e, al netto dei successivi errori di Futuro e Libertà, i cattivi risultati si sono visti. Alfano e i suoi, invece, non costituiscono una componente estranea alla storia del Cavaliere. Ne sono parte integrante e sono (stati) legati a lui da fortissimi legami, anche personali. Il loro distacco incide nel corpo del partito: non rappresentano una scheggia impazzita o una anomalia. Inoltre, per quanto Fli abbia raccolto solo delle briciole alle ultime elezioni, quella rottura ha contribuito a disaffezionare gli elettori del centro-destra nei confronti del Pdl e del suo leader. La perdita di 6 milioni e mezzo di voti si deve anche allo sconcerto per una immagine di divisioni e spaccature interne. Tanto più in un partito che faceva dell’amore e dei buoni sentimenti una bandiera, contro i nemici della sinistra che «sanno solo odiare».
In terzo luogo, Berlusconi pensa di ridurre a più miti consigli il drappello dei contestatori ricordando loro la sua capacità di mobilitazione alle ultime elezioni. Anche qui il Cavaliere dimostra di non avere capito cosa sia successo con il terremoto del voto di febbraio. Non solo il Pdl ha trovato un competitore imprevisto e inafferrabile come i 5 Stelle che con molta maggior energia e credibilità sollecitano alcune corde sensibili di un elettorato moderato poco identificato con il Cavaliere. Ma soprattutto, dopo l’irruzione di Grillo, non ci sarà più uno scontro frontale con la sinistra, perché i moderati – che in Italia, spesso, sono i più arrabbiati (ma questa è un’altra storia) – hanno un’altra opzione elettorale.
Infine, e strettamente connesso con quest’ultimo aspetto, la base sociale che ha sorretto la destra in questo ventennio si sta sfaldando. All’origine del successo berlusconiano c’era una società animata da uno slancio vitalistico e fattivo, con una esaltazione dell’intrapresa e dell’individualità, in un clima di ottimismo e persino di disinvoltura. Una società dai mille impieghi, insofferente di uno Stato impiccione e di Chiese invadenti, volta alla espressione del sé in forme anche sregolate ed anarcoidi, con tratti persino gaudenti. Di quella società non sono rimasti altro che degli scampoli. La lunga crisi ha annichilito le basi strutturali su cui si reggeva quel clima di opinione. Il sole in tasca del Venditore si è spento, e il ritorno a Forza Italia si riduce ad un mesto ripiegarsi sui bei tempi che furono e che non torneranno.
Per tutte queste ragioni la separazione di una componente moderata che assicuri stabilità al governo Letta non sarà senza costi per il Cavaliere. Gli elettori di centrodestra vogliono la stabilità e difficilmente condanneranno senz’appello chi la garantirà.
La Repubblica 13-11-13