L’Uomo che nessuno dovrebbe perdere di vista si chiama Erkki Liikanen. Ex politico socialdemocratico, quindi commissario europeo, oggi governatore della Banca di Finlandia, Liikanen a 63 anni vive un curioso destino: è diventato l’ago della bilancia della Bce. È lui la quantità marginale che sposta gli equilibri in seno alla Banca centrale europea quando prende posizione. SUGLI esponenti tedeschi si può sempre contare per una voce contro un ammorbidimento delle condizioni monetarie; su quelli dell’Europa del Sud ci si può aspettare, con pari regolarità, la linea opposta. Dunque la posizione di Liikanen, da una parte o dall’altra, segnala dove sta per girare il vento.
Di fronte al rischio di deflazione sul fianco Sud dell’euro, e non solo lì, ieri il finlandese ha scelto ciò che la Bce poteva fare quattro mesi fa: un taglio del tasso principale a cui presta denaro alle banche. Il Consiglio direttivo di Francoforte del resto è un organismo nel quale le regole scritte e quelle effettive non sempre combaciano. In teoria l’Eurotower può muovere sui tassi (e molto altro) con una maggioranza semplice, isolando i due voti tedeschi di Jens Wiedmann e Joerg Asmussen e dei loro alleati di Olanda o Lussemburgo. Nella realtà, la Bce non mai ha deciso niente se i dissenzienti in Consiglio sono più di tre o quattro su 23. Esistono minoranze di blocco implicite, perché la banca centrale non può diventare un corpo estraneo nel cuore della Germania dove risiede.
Anche per questo la Bce a volte prende di sorpresa gli investitori, com’è accaduto ieri. Dopo un primo sussulto al rialzo, le banche italiane sono crollate in Borsa trascinando giù Piazza Affari; a fine giornata, il Dax tedesco era il solo grande listino europeo in progresso. «I mercati si muovono e agiscono come vogliono, qualunque cosa accada », ha commentato Mario Draghi. Il presidente della Bce non ha dimenticato come il 2 agosto 2012 le Borse europee crollarono e gli spread si impennarono quando lui annunciò la svolta sugli acquisti di bond che avrebbe salvato l’euro. Quella caduta d’istinto fu il preludio, nelle settimane e nei mesi seguenti, di uno dei più grandi rimbalzi di sempre.
Neanche la reazione di ieri è una sentenza definitiva. I ribassi
dell’euro potrebbero durare poco, come non durarono in luglio scorso quando Draghi promise che i tassi sarebbero rimasti bassissimi a lungo. Contro il riallineamento fra monete milita l’equivalente di 155 miliardi di dollari che ogni mese la Federal Reserve americana e la Bank of Japan stampano e immettono sul mercato. A questa forza di fuoco finanziaria che schiaccia al ribasso dollaro e yen, la Bce per ora non risponde con strumenti altrettanto forti.
Eppure la crescita del Dax tedesco e il crollo delle banche italiane rivela lo stesso qualcosa della psicologia degli investitori in questa fase. È probabile che i titoli finanziari di Piazza Affari siano caduti perché è in questione il loro modo di ottenere ricavi e profitti. Per loro una fonte importante di utili è la differenza fra il (basso) interesse che versano sui depositi a vista dei clienti e il margine che realizzano investendo quegli stessi fondi in titoli a reddito fisso. «Con tassi quasi a zero, quello spicchio di profittabilità rischia di comprimersi ancora», osserva l’analista di Fidentiis, Fabrizio Bernardi. Il mercato sospetta che le banche italiane diverranno sempre meno redditizie e non attrarranno investitori, se e quando l’anno prossimo la Bce imporrà loro aumenti di capitale. Su di loro resta nel mercato un sospetto di vulnerabilità, dubbi che peraltro Banca d’Italia respinge. D’altra parte, la scivolata dell’euro ieri ha spinto al rialzo il listino tedesco perché è il solo dominato da grandi esportatori e non da gruppi finanziari.
Non tutto però è negativo per gli istituti di credito in Italia, nella mossa della Bce di ieri. L’ultimo taglio dei tassi in maggio ha dimostrato che queste mosse riducono davvero — benché di poco — gli interessi sui prestiti alle imprese. I loro oneri resteranno circa il 2% sopra a quelli dei concorrenti tedeschi. Ma verranno giù, dunque potrebbe rallentare il ritmo dei fallimenti d’impresa e l’aumento delle perdite delle banche sui crediti già concessi. Niente di tutto questo però dissipa l’interrogativo di fondo. Il taglio dei tassi di ieri risponde al rischio che l’inflazione sia troppo bassa o i prezzi inizino a scendere. Quello sarebbe uno scenario di paralisi dell’economia e di aumento progressivo del peso del debito, frutto del crollo dei consumi. Oggi nell’economia di Eurolandia la domanda di beni e servizi è di quasi 300 miliardi di euro inferiori ai livelli del 2009. E’ come se in quattro anni fosse stato spazzato via più di un quinto del Pil italiano. Per farlo riemergere, serve più di un taglio di un quarto di punto ai tassi d’interesse.
La Repubblica 08.11.13