«How science goes wrong». Il coloratissimo titolo dominava la prima pagina della più nota e diffusa rivista economica del mondo, The Economist, sulla prima pagina. Annunciando un dossier, piuttosto lungo, sul «come la scienza sbaglia». O, meglio ancora, su «come la scienza funziona male». L’intervento ha scatenato una miriade di reazioni, anche sui media italiani. E, anche se il tema non è nuovo, giunge più che mai opportuno. Per due motivi. Il primo è che la copertina di The Economist, ricorda a tutti ma soprattutto a noi italiani che la scienza occupa un ruolo decisivo nella società e nell’economia del mondo. E che il suo funzionamento interno non è questione da tecnici, ma può ben occupare la copertina di una delle poche riviste globali. Per dirla in una battuta, The Economist ricorda a tutti ma soprattutto a noi italiani che la scienza è questione troppo seria per lasciarla ai (soli) scienziati. Il secondo motivo che torna a merito di The Economist è di averci ricordato come la scienza o meglio, la comunità scientifica mondiale, con le sue prassi e i suoi valori è nel bel mezzo di una transizione epocale. Anche se, bisogna dire, gli estensori del dossier non hanno colto tutta la dimensione del cambiamenti. E, di conseguenza, non hanno colto tutte le ragioni che inducono (che sembrano indurre) la comunità scientifica a sbagliare più che in passato e le prassi scientifiche a funzionare peggio che in passato. Il succo dell’analisi di The Economist, fondata su alcune recenti ricerche scientifiche (e già, la scienza sa indagare su se stessa senza indulgenza), è che molti degli articoli scientifici pubblicati su alcune decine di migliaia di riviste in tutto il mondo sono piene di errori, metodologici e di contenuto, e presentano risultati né verificati né verificabili. Questa situazione costituisce un pericolo sia per il corretto funzionamento della scienza, sia per la sua credibilità. Ma, soprattutto, costituisce uno spreco di denaro, spesso pubblico, e un danno per l’umanità. Perché procedure più corrette consentirebbero di migliorare la qualità della spesa e di produrre risultati migliori a beneficio dei cittadini del pianeta. È vero che anche in passato, riconosce The Economist, non sono certo mancati gli errori e persino le frodi scientifiche. Ma ora la patologia sta diventando più estesa e diffusa. Le cause individuate dai redattori della rivista sono essenzialmente tre. Una è che gli scienziati sono chiamati a confrontarsi con una massa crescente di dati e non hanno ancora acquisito una matura cultura statistica per gestirli. Una seconda ragione è che sta crescendo la competitività scientifica a livello globale e il «public or perish» (pubblica o altrimenti muori), induce, appunto, a pubblicare qualsiasi cosa, anche non rigorosa, anche talvolta falsa. Terzo, è che né le riviste né le istituzioni scientifiche hanno interesse a verificare se le metodologie sono corrette e i risultati pubblicati verificabili. La situazione fotografata da The Economist è reale. E certamente le tre cause indicate colgono parti di verità. Ma, appunto, solo una parte della verità. E, dunque, ci danno un’informazione un po’ deformata sulla ricerca scientifica. Che, come dicevamo, è nel bel mezzo di una trasformazione epocale. Per tre motivi. Mai la ricerca scientifica ha avuto così tante risorse: il 2% del Prodotto interno lordo mondiale, pari a quasi 1.500 miliardi di dollari nel 2012. Con queste risorse possono lavorare oltre 7 milioni di ricercatori: cento volte di più che un secolo fa. I ricercatori di oggi sono superiori alla somma di tutti gli scienziati vissuti nelle epoche precedenti. Con tante risorse, finanziarie e umane, le vecchie e consolidate procedure funzionano necessariamente meno bene. La seconda trasformazione riguarda la scienza finanziate dalle imprese private. I due terzi degli investimenti in ricerca nel mondo (circa 1.000 miliardi di dollari) sono a opera di privati. Tutto questo sta modificando la griglia di valori di una parte della comunità scientifica (quella finanziata con fondi privati). E pone spesso in conflitto l’interesse privato (il segreto, il profitto) con quello pubblico (la trasparenza, il beneficio per tutti). La terza trasformazione riguarda l’internazionalizzazione. Fino a cinquanta anni fa, tre scienziati su quattro vivevano o in Europa o in Nord America: un mondo culturalmente omogeneo. Oggi più della metà degli scienziati vive in Asia. L’universo culturale è cambiato e si è differenziato. Difficile che le regole e i valori che vigevano in Europa e in quell’estensione dell’Europa che è il Nord America possano funzionare senza incrinature in una comunità finalmente globale. In definitiva, la scienza è in piena crisi di crescita. Come potrebbe non avere problemi? A tutto ciò si aggiunga il fatto che la ricerca scientifica costituisce il motore dell’economia di gran parte del pianeta (Italia, ahinoi esclusa): dei Paesi di antica industrializzazione e dei Paesi a economia emergente. Per cui sui ricercatori, pubblici e privati, si esercitano pressioni enormi, del tutto sconosciute in passato. Per questo un acuto osservatore della società scientifica, il fisico teorico John Ziman, sosteneva che la scienza vive una nuova fase storica, post-accademica, profondamente interpenetrata con il resto della società. Diversa dalla fase accademica vigente fino alla seconda guerra mondiale, quando gli scienziati vivevano e si sentivano isolati e ben protetti in una «torre d’avorio». Ma al netto di tutto ci sono ancora due considerazioni da fare. La prima è che quella scientifica, per quanto cresciuta e globalizzata, è una comunità che ha una capacità senza pari di indagare se stessa, di scoprire dove sbaglia e di autocorreggersi. Ne ha dato prova nei mesi scorsi l’esperimento Opera, che aveva rivelato presso il Gran Sasso dei neutrini che sembravano viaggiare a velocità superiore a quella della luce. Ha diffuso questi risultati che, se veri, avrebbero costituito una pietra miliare nella storia della fisica. Ma lo ha fatto con prudenza. E, soprattutto, si è messo alla ricerca di un possibile errore. La ha trovato. E, anche se era un errore banale, non ha avuto paura di metterci la faccia e di riconoscerlo. Quale altra comunità avrebbe fatto altrettanto? Ma, al di là dell’onesta individuale che, sia detto per inciso, tra gli scienziati è in media superiore di gran lunga alla media c’è un altro fattore che ci deve far continuare ad avere fiducia nella scienza. La storia della ricerca è piena zeppa di errori o di studi irrilevanti. Ma le conoscenze più solide e profonde sopravvivono per selezione naturale, e indipendentemente dai comportamenti dei ricercatori. La selezione non è deterministica, ma è efficiente. Tant’è che la scienza, pur con i suoi difetti, è la forma di conoscenza umana più produttiva e solida che si conosca.
L’Unità 04.11.13