L’alternativa è secca: o il disegno di legge Delrio diventa legge entro fine anno, o il «superamento» delle Province e il debutto delle Città metropolitane rischia di saltare. Per l’ennesima volta, e per parecchi anni. La ragione è semplice: il 31 dicembre scadono i commissariamenti di 32 Province, che sono state «congelate» dal lungo tira e molla avviato con il Governo Monti e nel 2014 potrebbero tornare al voto, insieme alle 62 Province in cui i mandati amministrativi sono stati avviati nel 2009 e quindi finiscono l’anno prossimo. Un’ondata di 94 elezioni provinciali che, insieme a quelle che si terranno in primavera in 4.069 Comuni, rischia di travolgere ogni tentativo di riforma.
Il Governo lo sa, e anche per evitare il grosso colpo d’immagine che arriverebbe dall’ennesimo addio al riordino delle istituzioni locali ha chiesto e ottenuto la procedura d’emergenza alla Camera. Il disegno di legge è alla commissione Affari costituzionali della Camera, il termine per gli emendamenti scade l’8 novembre e poi sarà la volta dell’Aula. Alla Camera e al Senato sono però da affrontare gli incroci con la legge di stabilità, e le tensioni interne ai partiti che sul tema Province ovviamente si dividono. Le posizioni ufficiali, Lega esclusa, sono per l’abolizione, ma la riforma prende di petto gli interessi di un pezzo di classe politica, e le discussioni sono accese. Nel Pd, per esempio, milita il ministro degli Affari regionali e delle Autonomie, Graziano Delrio, che ha firmato la riforma sugli ordinamenti locali, ma anche Antonio Saitta, presidente della Provincia di Torino e dell’Unione delle Province italiane, che contro quella riforma tuona ogni giorno. Sul tema si è scatenata anche una battaglia fra costituzionalisti. Quelli raccolti dall’Upi (tra cui Valerio Onida e Gian Candido De Martin) sostengono che lo «svuotamento» delle Province, con redistribuzione delle funzioni e sostituzione di Giunte e Consigli con organi di secondo livello composti dai sindaci del territorio, cozza contro l’articolo 114 della Costituzione, secondo il quale Comuni, Città metropolitane, Province, Regioni e Stato sono «equiordinati»: i loro colleghi interpellati dal Governo, fra i quali si incontrano Augusto Barbera e Stefano Ceccanti, ribattono il contrario, e negano l’esistenza di un «diritto naturale» alle funzioni e agli organi elettivi delle Province.
La discussione è aperta, ma intanto il progetto va avanti e prova a raccogliere consensi ulteriori. In cantiere ci sono correttivi importanti, a partire da una clausola di salvaguardia per il personale attuale delle Province, che seguirà la redistribuzione di funzioni sul territorio mantenendo però integrale il trattamento economico attuale. Una novità che trova naturalmente d’accordo Cgil, Cisl e Uil e che secondo Franco Pizzetti, consigliere giuridico del ministro Delrio, «non intacca i risparmi a regime, che derivano dalla distribuzione più efficiente di funzioni e risorse umane e non dagli interventi su stipendi e indennità». Altri correttivi sono in vista sulla definizione delle sorti del patrimonio, anche queste legate alla redistribuzione territoriale delle funzioni, e sulla rappresentanza dei piccoli Comuni all’interno dei consigli provinciali di secondo grado. Sul passaggio delle funzioni a Comuni o Regioni, secondo il progetto del Governo, decideranno i territori, che potrebbero anche confermare alle nuove Province qualche attribuzione degli attuali enti «di area vasta» (per esempio la gestione delle strade extracomunali). «L’obiettivo – sostiene Pizzetti – è arrivare a un’organizzazione più razionale, superando le Province attuali schiacciate fra Comuni e Regioni». Da qui dovrebbero arrivare i risparmi veri, ma proprio sul tema risparmi l’Unione delle Province fa la voce grossa, e arriva a sostenere che la riforma può arrivare a costare «due miliardi in più».
Come si vede, il tiro alla fune torna ad accendersi e strattona sia la Costituzione sia la matematica; per l’esito, comunque, è questione di poche settimane.
Il Sole 24 Ore 02.11.13
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«Sarebbe una beffa andare al voto per nuovi presidenti». «Le Regioni devono essere riordinate ma con l’intervento sulla Costituzione», di
Gianni Trovati
«Possiamo lavorare anche 24 ore al giorno, ma non possiamo mancare i tempi perché la riconvocazione delle elezioni provinciali sarebbe una beffa per tutti. Anche i commissariamenti sono un’anomalia, che non va aggravata ulteriormente». Alla riforma degli ordinamenti locali il ministro degli Affari regionali e delle Autonomie ha legato una parte importante del proprio ruolo politico attuale. Si dice consapevole che «il calendario è stringente», ma anche convinto che il Parlamento «ha la capacità e la possibilità di esaminare a fondo la legge».
Ministro, è giusto vincolare una riforma così profonda a tempi stretti?
Di Città metropolitane e riforma di Province e ordinamenti locali discutiamo da decenni. Anche sulla costituzionalità ci si è confrontati a lungo, e il comitato per le riforme ha concluso che la strada è corretta.
Le Province contestano però l’idea stessa che così si producano risparmi.
Gli studi portano evidenze diverse, basta guardare i numeri indicati dall’Istituto Bruno Leoni o dalla ricerca del Cerved Bocconi. In più abbiamo raccolto i dati della Sose sui fabbisogni standard, che nelle funzioni generali parlano di spesa inefficiente al 50-55 per cento.
L’inefficienza però è diffusa. Le Province non rischiano di essere il capro espiatorio?
No, perché la riforma parla di tutti i governi locali, e intreccia la gestione associata dei piccoli Comuni che va a regime nel 2014. Anche fra alcuni sindaci ci sono resistenze, ma rimango convinto che si debba andare verso le gestioni in rete, che in Europa riguarda il 90% degli enti mentre da noi è ferma al 12 per cento.
E le Regioni? In quanto a costi non scherzano.
Sono convinto che un ripensamento debba riguardare anche loro, e rilancio l’appello al «grande coraggio riformatore» richiamato da un presidente di Regione (la Campania, ndr) come Stefano Caldoro. L’autonomia legislativa ha portato le Regioni su livelli di gestione che non competono loro, ma qui l’intervento deve passare dalla riforma costituzionale.
Il Sole 24 Ore 02.11.13