Matteo Renzi provoca nella sinistra reazioni contrastanti. I suoi adepti sottolineano il talento di comunicatore del sindaco di Firenze.
Tratteggiano la sua originale personalità, l’età e l’attitudine a vincere le prossime elezioni; mentre i suoi avversari, o più semplicemente i dubbiosi, si preoccupano dell’eccesso di personalizzazione e della nebulosità del suo programma, interrogandosi sulle sue capacità di statista.Peraltro, questo tipo di dibattito, lungi dall’essere specificamente italiano, si ripropone ovunque nella sinistra europea al momento di scegliere il proprio leader.
In effetti, in tutti i Paesi dell’Unione europea la democrazia sta vivendo mutazioni analoghe, che poi si declinano in maniera diversa a seconda della storia, delle istituzioni e dei sistemi partitici di ciascuno degli Stati membri. Dovunque si sta affermando quella che Bernard Manin ha definito la “democrazia del pubblico”, caratterizzata dal declino dei partiti (anche se non scompaiono del tutto), dalla disgregazione delle identità e culture politiche tradizionali, dall’aumento della volatilità, dal ruolo crescente dei leader e dall’importanza della televisione, di Internet e delle reti sociali. Altro grande cambiamento: la disaffezione nei confronti delle istituzioni, l’euroscetticismo generalizzato e il rigetto delle élite dirigenti: tutto questo porta a esacerbare i populismi, cavalcati da leader energici e abili. In queste condizioni, la sinistra è confrontata con un problema cruciale: che tipo di leader designare per far fronte a sfide di tale portata?
Una sua parte ritiene indispensabile adattarsi a questa modernizzazione, e accetta una politica di tipo presidenziale, personalizzata e mediatizzata, per non lasciare la piazza ai leader della destra e ai populisti, e soprattutto per vincere il più largamente possibile. Per converso, un’altra parte della sinistra rifiuta di mettersi su questa strada evocando trascorsi storici traumatici — bonapartismo, fascismo, nazismo, stalinismo — e glorificando la cultura collettiva dei partiti. Si richiama al valore dell’uguaglianza, e rivendica un orientamento nettamente radicato a sinistra. Un dilemma è difficile da risolvere, come dimostra l’esperienza di altre realtà che hanno visto emergere due tipi di leader.
In Italia e in Francia, il Pd e il Partito socialista si sono convertiti — anche se con modalità e forme diverse — alle primarie, che mirano a riannodare i legami con settori della società civile, ma comportano al tempo stesso l’accettazione di una politica personalizzata. In entrambi i Paesi, i vincitori delle ultime primarie indette per designare il candidato alla competizione più decisiva hanno omesso di trarre tutte le conseguenze dal loro successo. Dopo aver vinto le primarie del 2011, François Hollande ha adottato un basso profilo, presentandosi come futuro “presidente normale” e cavalcando l’onda della contrarietà a Nicolas Sarkozy. Ma dopo la vittoria risicata nel 2012, la sua concezione del ruolo di capo dello Stato ha indebolito le condizioni dell’esercizio della sua presidenza della Repubblica. Un anno dopo, Pierluigi Bersani ha adottato un atteggiamento analogo, definendosi innanzitutto come un rappresentante della ditta del centrosinistra. Ma quando la vittoria sembrava a portata di mano, ha subito uno scacco fatale. Sia Bersani che Hollande, convinti oltre tutto che il tempo della polarizzazione su un uomo solo – incarnato rispettivamente da Berlusconi e Sarkozy – fosse ormai finito, si sono sforzati di conciliare le due logiche antagoniste della personalizzazione e del partito.
Altri leader sconvolgono deliberatamente le tradizioni e spazzano via i tabù: come Tony Blair, che a 41 anni si è impadronito del Labour accelerando il processo di modernizzazione già avviato dai suoi predecessori: ne ha riformato l’organizzazione, rifondato l’identità e affermato l’autorità, mettendo in campo un suo modo di comunicare e teorizzando, con l’aiuto di Anthony Giddens, la nozione di Terza via. Tre anni dopo ha conquistato il potere, ponendo fine a diciotto anni di sconfitte elettorali laburiste. In Francia, nel 2006 Ségolène Royal ha tentato un’operazione di tipo analogo e si è imposta alle primarie del partito socialista, per candidarsi, nel 2007, alla presidenza della Repubblica. Ma dopo un inizio dirompente, quando i sondaggi nutrivano tutte le sue speranze, è stata sconfitta. Sconfitta, anche a causa delle forti reticenze all’interno stesso del suo schieramento, delle sue continue improvvisazioni, dell’incoerenza delle sue proposte, ma soprattutto grazie al dinamismo del suo avversario, Nicolas Sarkozy. Sia Blair che Royal sono figure di leader innovatori e iconoclasti.
Per Matteo Renzi, che appartiene indubbiamente a quest’ultima categoria, la personalizzazione della politica è un processo irreversibile; e il “popolo della sinistra” è più disponibile ad accettarla nel momento in cui emerge un leader suscettibile di strappare finalmente la vittoria alla destra. Tuttavia – e questa è la lezione della sconfitta di Ségolène Royal – non basta la capacità di vincere, e neppure il semplice desiderio di cambiamento degli elettori, il carisma e le doti di comunicatore. L’immagine certo è fondamentale, ma non garantisce la vittoria. Per vincere, un leader deve convincere – sull’esempio di Blair – il proprio partito, che resta uno strumento indispensabile nelle campagne elettorali. E ciò presuppone, soprattutto per il Pd – questo «partito senza qualità», secondo l’espressione di Mauro Calise – la definizione di un progetto chiaro, e un’identità che il leader – pur cercando di conquistare voti all’esterno – è chiamato a incarnare.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)
La Repubblica 29.10.13