Non a caso Beppe Grillo scatena oggi un attacco diretto al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano attraverso un duello personale con il capo dello Stato, individuato come il garante della stabilità del nostro sistema di fronte all’establishment dell’Unione europea, il capo dei 5 Stelle punta a amplificare la parola d’ordine su cui ha convocato per il 1° dicembre a Genova il suo terzo Vday: «L’Italia non deve più versare il suo tributo di sangue all’Europa ». Quel giorno prenderà il via una campagna elettorale il cui scopo è fin troppo chiaro: trasformare in plebiscito no-euro l’ostilità abbattutasi un po’ dappertutto sull’Ue; e liquidare come velleità riservata ai benestanti gli ideali della sinistra europeista. Napolitano è il bersaglio ideale di questa offensiva.
Il manifesto di convocazione del Vday si chiude con l’indicazione di questo obiettivo: «Vogliamo vincere le prossime elezioni, a iniziare da quelle europee». Non si tratta di una boutade, ma di un calcolo che tiene conto anche del sistema proporzionale con cui si voterà nel maggio 2014. Grazie ad esso, vi sono ragionevoli possibilità che una campagna elettorale impostata sulla contrapposizione “Europa sì – Europa no” veda imporsi come partito di maggioranza relativa la formazione grillina. Che confida di avere buon gioco nell’indicare il governo delle larghe intese, e la sua sudditanza ai diktat di Bruxelles, come i responsabili della crescente sofferenza sociale.
La stessa contrarietà dichiarata da Grillo all’abrogazione del reato di immigrazione clandestina, conferma questo suo proposito: vuole assecondare la sindrome da invasione straniera, impersonata altrove dai partiti populisti e xenofobi antieuropei, per offrirsi così come punto di riferimento all’elettorato di destra in libera uscita. Punta anche lì a fare il pieno di voti. Ma ben oltre tale corrività strumentale, il progetto di Grillo è ambizioso: esso mira infatti a una clamorosa bocciatura per via elettorale di quegli “stupidi” parametri con cui, vent’anni fa a Maastricht, si diede vita a una Unione prima finanziaria e monetaria che politica; parametri inaspriti ulteriormente, sotto i colpi della recessione, con i vincoli di bilancio pretesi dalla cancelleria di Berlino e con il rubinetto della liquidità creditizia gestito dalla Banca Centrale di Francoforte.
Grillo sa di riscuotere vasto consenso quando parla di «tributo di sangue» imposto dall’Europa all’Italia. Nella sua propaganda, «Imu, Iva, Tarsu, Tares, Trise sono il frutto della religione dell’austerità ». Poi, nel 2016, entrerà in vigore il Fiscal Compact, col quale «siamo condannati a trovare ogni anno 50 miliardi per i prossimi vent’anni». Senza peraltro che ciò garantisca il ripianamento del nostro debito pubblico.
Ecco l’argomento anti-Ue grazie a cui Grillo confida di imporsi come maggioranza relativa in Italia: le enormi cifre che l’Europa ci impone di versare, da sole «basterebbero a riavviare la nostra economia e a fare del nostro Paese uno Stato florido». Dunque l’Europa sarebbe un impedimento anziché la levatrice della nostra rinascita.
Demagogia? Non c’è dubbio, ma efficacissima. Tanto più se la mettiamo a confronto con la confidenza sfuggita alla Sorbona di Parigi, venerdì scorso, al nostro primo ministro Enrico Letta: «Dirò qualcosa di impopolare, ma se non avessi avuto lo scudo comunitario, non avrei potuto dire no a chi in Italia faceva pressione per aumentare il debito».
Mi chiedo se, oltre che “impopolare”, quella di Letta non sia anche una dichiarazione d’impotenza. Lo stesso argomento, peraltro, fu usato in pubblico da Berlusconi nell’estate 2011, quando si rallegrò di aver ricevuto per lettera dalla Bce l’imposizione di provvedimenti che il suo governo altrimenti non sarebbe stato in grado di varare.
Qualora la contrapposizione rimanesse così brutalmente semplificata — da una parte Grillo che propone la sconfessione dei trattati europei; dall’altra il governo che si trincera dietro lo “scudo comunitario” pur di non rivedere i vincoli di bilancio — temo che l’esito delle elezioni europee sia segnato: col partito dell’austerità destinato alla sconfitta, Renzi o non Renzi. Più difficile è immaginare quali effetti traumatici sortirebbe, su tutta l’Unione, la vittoria di un movimento antieuropeo in un grande Paese come Italia.
È per questo che oggi appare così drammatica l’irrilevanza cui sembra condannato il progetto sociale e politico di una sinistra europeista.
Viviamo un passaggio storico cruciale in cui sembrerebbe che l’Europa dei cittadini indebitati, dei giovani disoccupati, del ceto medio impoverito, del Quinto Stato in cui confluiscono milioni di lavoratori parasubordinati, autonomi, precari, possa trovare solo nel populismo nazionalista uno sbocco politico al suo malessere.
Non solo. Viviamo anche un passaggio generazionale. Dopo l’europeismo dei padri fondatori, dopo la visione sociale di Delors e Prodi, dopo il cosmopolitismo sessantottino dei Cohn-Bendit, Langer, Fischer, Michnik, è come se ci fosse un vuoto di cultura della cittadinanza e del comune destino europeo. Ancor più evidente in Italia.
La personalità più riconosciuta sul piano continentale della sinistra italiana, Giorgio Napolitano, nella sua veste di garante istituzionale, è divenuto il principale interlocutore dei partner dell’Unione, e come tale appare proteso in un faticoso impegno di salvaguardia degli architravi comunitari vacillanti, che non offre margini di manovra. Non a caso privilegia il rapporto con il governatore Draghi. Ma nel frattempo chiunque da sinistra, con finalità di giustizia sociale, adombri una revisione dei trattati e un allentamento della politica di bilancio, rischia l’accusa di sovversivismo. Neanche l’appello del Gruppo Spinelli del Parlamento di Strasburgo, primi firmatari Daniel Cohn-Bendit e Guy Verhofstadt, «per una rivoluzione post-nazionale in Europa», ha finora trovato sostenitori in Italia. Esso afferma che «gli Stati nazionali hanno avuto un ruolo molto importante nella civilizzazione europea ma adesso sono superati». Contrappone al nazionalpopulismo dilagante l’attualità degli Stati Uniti d’Europa. Individua nella Grecia e nel suo dramma l’epicentro su cui rifondare una nuova comunità di destino europeo. Qualcuno gli darà retta?
Sarebbe prezioso che in campagna elettorale emergesse una visione europeista disincagliata dai parametri di Maastricht e dal Fiscal compact: unica vera alternativa al catastrofismo no-euro di Grillo, nutrito dai fallimenti di una tecnocrazia che s’illude ancora di trovare riparo dietro allo “scudo comunitario”.
La Repubblica 29.10.13
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“Flop in Trentino, M5S al 5 per cento. Trionfo centrosinistra. Alto Adige, Svp perde la maggioranza assoluta”, di ANDREA SELVA
Crollano i partiti del centrodestra tradizionale, a picco il movimento 5Stelle, vince la voglia di autonomia. Ecco il risultato del voto in Trentino Alto Adige dove la Svp (il principale partito di lingua tedesca) governerà la Provincia di Bolzano con Arno Kompatscher nonostante la perdita, per la prima volta, della maggioranza assoluta. Sarà lui a raccogliere l’eredità di Luisi Durnwalder, mentre il candidato del Partito autonomista trentino tirolese (Ugo Rossi, alla guida di una coalizione di centrosinistra) ha vinto le elezioni con una percentuale addirittura superiore a quella dell’ex governatore Lorenzo Dellai: oltre il 58 per cento. Gli elettori (che in Trentino sono calati del 10 per cento) hanno scelto la continuità. Fa notizia invece il crollo delle liste di Berlusconi a cui non ha giovato il cambio del nome: Forza Trentino e Forza Alto Adige (così si chiamavano le due liste in campo) si ritroveranno nelle due province
con un solo consigliere: 2,5 per cento in Alto Adige, 4 per cento a Trento. Una disfatta. Micaela Biancofiore da Bolzano ammette la sconfitta e le responsabilità: «Un risultato sconfortante, l’astensionismo italiano in provincia di Bolzano si spiega anche con la mia destituzione dalla carica di sottosegretario». È finita con cinque soli candidati di lingua italiana in consiglio provinciale, nonostante il buon risultato del Pd. Fuori dal consiglio provinciale altoatesino anche la biondissima candidata di lingua svedese, Marie Måwe, che per candidarsi (e ricevere oltre 6mila preferenze) era riuscita a ottenere la cittadinanza italiana a tempo di record. Il Trentino ha invece dato grandi soddisfazioni al Pd: primo partito della Provincia con il 22 per cento, davanti agli autonomisti (17,5%) e alla lista dell’Unione per il Trentino che portava ancora il nome di Dellai ma che si è fermata al 13 per cento. L’ex governatore – ora capogruppo di Scelta Civica alla Camera – la vede così: «È stata premiata la stabilità politica». Intanto l’ex super assessore Silvano Grisenti – in passato braccio operativo proprio di Dellai – rientrerà in Consiglio provinciale dopo una condanna per truffa, forte di oltre 7mila preferenze. La Lega (che a Bolzano è completamente sparita) a Trento vede dimezzati i propri consiglieri. Il Movimento 5 Stelle nelle province autonome non sfonda, ma si ferma a percentuali minime con un consigliere a Bolzano (2,5 per cento) e due consiglieri a Trento (5 per cento, prese il 20,8 alle politiche). E dire che Grillo pochi giorni fa ne aveva previsti tre o quattro, ma aveva comunque anticipato il risultato: «Qui non possiamo farcela».
La Repubblica 29.10.13