Premiate o penalizzate le università non sulla base del merito formativo, ma solo sulla base “dei conti in ordine”. Imposto un notevole trasferimento di«punti organico»dalle università del Sud alle università del Centro e del Nord. E poiché,nel linguaggio ministeriale,un«punto organico» equivale a un docente, significa che, come se ad agire fosse un Robin Hood alla rovescia, molte risorse umane vengono sottratte agli «atenei poveri» del Mezzogiorno d’Italia e conferite agli «atenei ricchi» del Centro e del Settentrione. Diciamolo chiaramente. C’è un duplice errore nel processo che ha portato alla elaborazione della tabella che il ministero dell’Istruzione ha reso pubblica nei giorni scorsi che riduce in numeri le disposizioni contenute nel decreto ministeriale «Decreto criteri e contingente assunzionale delle Università statali per l’anno 2013» del 9 agosto scorso che regola il turn over dei docenti negli atenei pubblici. Si tratta di due grossi errori che il ministro, Maria Chiara Carrozza, si è detto disponibile a correggere, che giungono a valle di uno sbaglio ancora maggiore deciso dai governi che hanno preceduto quello di Enrico Letta: il taglio del turn over dell’80%. Il che significa che per ogni 5 docenti che vanno in pensione, le università pubbliche possono assumerne sole 1. Protratto per vari anni, questo vincolo abbatte ulteriormente e drasticamente la capacità formativa delle università in un paese,l’Italia, in cui il numero di giovani laureati (19% nella fascia di età compresa tra i 25 e i 34 anni) è la metà della media Ocse (40% circa) e sideralmente lontana dalla media di paesi come la Corea del Sud (64% di laureati) o di Giappone, Canada, Russia dove la media sfiora il 60%. Obiettivo strategico dell’intero Paese (e non solo delle università italiane) dovrebbe essere quello di diminuire il pauroso gap cognitivo che si è determinato tra l’Italia e la gran parte del resto d’Europa e del mondo. Il vincolo del turn over al 20% è un potente fattore di peggioramento del sistema dell’alta formazione. A questo errore strategico si sommano i due errori contenuti, ad avviso non solo di chi scrive, ma di molti rettori e di molti osservatori, nella recente tabella resa pubblica dal ministero. Il meccanismo, più o meno, funziona così. Il taglio dell’80% del turn over si applica al sistema universitario pubblico nel suo insieme. Insomma, se da tutte le università italiane escono in cento,possono entrare in totale solo in venti. Fermo restando a scala nazionale il taglio draconiano,c’è un meccanismo fondato su criteri meramente economici che consente alle singole università che hanno i «parametri in ordine» di evitare il taglio del turn over, di converso impedisce a chi ha i«parametri in disordine» di raggiungere anche la quota davvero misera del 20%. Facciamo due esempi, per capirci. La Scuola Sant’Anna di Pisa, di cui il ministro Maria Chiara Carrozza è stata rettore, risulta avere i parametri a Posto e avrà la possibilità di assumere un numero di Docenti triplo rispetto a quelli che andranno in pensione: un turn over positivo superiore al 200%. Al contrario, l’Università di Bari o l’Università Federico II di Napoli potranno concedersi un turn over di poco superiore al 5%. In pratica, per ogni cento posti lasciati da chi è andato in pensione a Bari o a Napoli ne potranno essere coperti solo sei o sette. Dove sono i due errori? Beh, problemi di legittimità a parte del decreto, il primo errore da correggere risiede nel fatto che l’offerta formativa di un università può aumentare o diminuire non in base al merito scientifico o didattico (a Bari, per esempio, le performance di merito sono aumentate nell’ultimo anno), ma in base solo a parametri economici e/o burocratici. Non è un bel messaggio che viene dato ai giovani e alle università che frequentano. Il secondo errore è ancora più grave. Il meccanismo, infatti, sposta «risorse umane» importanti dagli atenei poveri del Sud d’Italia verso gli atenei ricchi del Centro e del Nord. Con un triplice effetto indesiderabile. Sottrarre l’opzione della conoscenza alla parte del paese, quella meridionale, che ne ha più bisogno. E non solo in termini economici, ma anche culturali e civili:la conoscenza e i suoi luoghi sono il primo presidio sia contro la povertà sia contro l’illegalità. Imporre ai giovani meridionali che si vogliono laureare di migrare verso il Centro e verso il Nord del paese, con aggravio di disagi per loro e di costi per le loro famiglie. Costi e disagi aggravati dal fatto che il Mezzogiorno è l’area che è stata più colpita dalla crisi e che, come ci ha documentato di recente lo Svimez ha visto diminuire la propria produzione di ricchezza del 25% negli ultimi anni. Il terzo effetto indesiderabile è che, con un simile spostamento territoriale dell’offerta formativa, i giovani che vogliono iscriversi all’università saranno disincentivati e rinunceranno. Col risultato di aumentare lo «spread cognitivo» con il resto del mondo. L’Italia e non solo il suo Mezzogiorno non se lo può permettere.
L’Unità 29.10.13