Un film che consiglio a chi mi legge di andare a vedere, ha un titolo che dice già tutto: “La fragile armonia”. Si tratta d’un quartetto di archi, un primo violino, un secondo violino, una viola e un violoncello. Suonano meravigliosamente, sono tre uomini e, alla viola, una donna, moglie del secondo violino. Tutti amici tra loro, ma quello che ne assiste l’amicizia è il violoncellista, il più anziano d’età. Ad un certo punto il violoncellista si ammala di Parkinson ed è costretto a ritirarsi. Da quel momento in poi esplodono una serie di tensioni che rischiano di distruggere il quartetto. La storia è questa; non dico il finale che merita d’esser visto e non raccontato.
Vi domanderete che diavolo c’entra questo film con l’attualità politica della quale debbo anche oggi occuparmi. La risposta è semplice. La fragile armonia è purtroppo il connotato dell’intera situazione italiana ed anche europea e perfino americana. Coinvolge i governi, i partiti, le società, l’economia, gli operatori della sicurezza pubblica; insomma tutti. Perfino la cultura. Anche la cultura è fragile, la morale pubblica è fragile, i comportamenti pubblici e privati sono fragili.
Le cause sono molte. Ma ce n’è una che soverchia tutte le altre e le determina: noi siamo alla fine di un’epoca, quella della modernità, del pensiero profondo che a memoria del passato, vive responsabilmente il presente e costruisce il progetto del futuro. Quest’epoca sta morendo. Durerà a lungo la sua agonia. Come sempre accaduto nella storia. Cambierà il pensiero, cambierà il linguaggio, cambierà il costume e quasi nessuno sembra accorgersene, stiamo vivendo questi cambiamenti che non sono graduali ma radicali e drammatici. Pochi ne sono consapevoli ma i più non lo sono e vivono schiacciati sul presente, senza memoria del passato né speranza del futuro.
Non è la prima volta che scrivo queste cose, ma debbo ripetermi per spiegar meglio la diagnosi e la terapia per chi voglia consultarmi come accettabile medico. Non credo siano molti. Manzoni si rivolgeva ai suoi 25 lettori di quel libro, apparentemente semplice ma in realtà difficilissimo, che è “I promessi sposi”. Papa Francesco mi ha detto che è uno dei suoi libri preferiti e che già l’ha letto due volte ed ora l’ha ricominciato per la terza rilettura. Questo fatto penso che meriti l’attenzione
dei miei 25 lettori.
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La situazione politica del nostro Paese è estremamente fragile. Il centrodestra sta esplodendo e implodendo. Il suo “patron” perde pezzi – cioè consenso – ogni giorno ma è ancora capace di crear guai nel tentativo di sopravvivenza, un caimano azzoppato ma ancora in grado di far del male. Ieri ha spaccato il partito, l’ha consegnato ai duri e puri, cioè a quelli identificati con lui; ha designato a succedergli la figlia Marina, così come avveniva in tempi di regimi assoluti nelle dinastie sovrane.
A contarli bene i berlusconiani sono ormai divisi in cinque o sei spezzoni, tra i quali ci sono anche quelli – forse i soli consapevoli di quanto sta avvenendo – che vorrebbero dar vita a una destra moderata, repubblicana e europeista, capace di alternarsi con una sinistra riformista ed europeista e – quando necessario – coalizzarsi con l’avversario per superare crisi epocali.
Purtroppo sono pochi e perciò timidi e incerti nella scelta dei tempi e dei modi. La sinistra riformista dovrebbe incoraggiarli. Ugo La Malfa, che ha lasciato nella storia italiana una traccia molto superiore alle forze quantitative del partito che guidava, cercò di rendere moderni un capitalismo arretrato e monopoloide e una sinistra ancora pervasa dall’ideologia del marxismo-leninista e staliniano.
Oggi la sinistra si è affrancata da quell’ideologia ma è anch’essa fragile e non mi pare che trovi la forza di aiutare la destra a cambiar natura. Ecco un’altra fragilità, sia pure di diversa natura, che merita attenzione.
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Il Partito democratico non è né esploso né imploso. È ancora una struttura politica ammaccata quanto si vuole ma non decomposta. Qual è allora la sua fragilità?
Sta tutta nelle tensioni che oppongono gli uni agli altri i leader vecchi e i nuovi emergenti, ma anche gli elettori di ispirazione post-comunista, quelli post-popolari e anche quelli liberal democratici.
Questi tre filoni culturali costituiscono un pluralismo molto bene assortito per un grande partito pluralista, purché la leadership sia in grado di mantenere ed accrescere l’integrazione e la rappresentatività sociale. Il quartetto d’archi del film che ho sopra citato è perfettamente adeguato alla situazione attuale del Pd, dove tutti, pur essendo consapevoli del problema del pluralismo integrabile delle componenti culturali e politiche di quel partito, sono però limitati da odi antichi e recenti, rivalse, vendette, sospetti, doppi e tripli giochi, a rischio di perdere di vista l’obiettivo
primario che consiste nell’interesse generale del Paese.
Un partito che aspira all’egemonia ed ha le carte per poterla conquistare deve sentirsi in primo luogo portatore degli interessi generali e far valere i propri in quel quadro. In caso contrario l’egemonia non si conquista perché non la si merita.
Voglio ricordare ancora una volta (non è la prima) quali furono le convinzioni di fondo di personalità del livello di Luciano Lama, Giorgio Amendola, Enrico Berlinguer, Ezio Vanoni, Nino Andreatta, Pasquale Saraceno, Antonio Giolitti ed altri ancora di analogo spessore, quando sostennero nell’interesse generale del Paese l’austerità, la crescita dell’occupazione, l’eguaglianza delle posizioni di partenza, i diritti degli esclusi e dei deboli, i doveri dei forti e dei ricchi, il riscatto del Mezzogiorno, la lotta contro le mafie, le clientele, i monopoli e infine la ragione contro le emozioni e i colpi di testa.
Questo è il bivio di fronte al quale si trova ora il Partito democratico: conquistare l’egemonia anteponendo l’interesse generale ai propri e perfino a quelli di partito. Se non sapranno operare in questo quadro significherà purtroppo che non hanno lo spessore culturale prima ancora che politico di utilizzare la memoria del passato per proiettarsi nel futuro. Resteranno schiacciati dai giochetti di un presente pieno di agguati e di sgradite sorprese.
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Sostengo il governo Letta da quando fu insediato sei mesi fa con la fiducia del Parlamento. Non è un governo di larghe intese ma di necessità. I suoi ministri lo sanno ed anche i partiti che lo sostengono lo sanno. Il suo compito è quello di raccogliere tutte le risorse disponibili e utilizzarle per mantenere il deficit al sotto della soglie del 3 per cento e per quanto possibile alleviare la recessione che attanaglia l’economia italiana.
Il primo obiettivo è stato raggiunto nonostante la caduta del Pil che influisce negativamente sul deficit. Il governo ha raschiato il fondo del barile, ha fatto ricorso alla Cassa depositi e prestiti che non incide sulla contabilità europea; ha avuto l’appoggio della Bce con iniezioni di liquidità e acquisti dei titoli pubblici sul mercato secondario. Ha alleggerito, ma di poco, il cuneo fiscale; ha dato corso a cospicui pagamenti dei debiti della pubblica amministrazione verso imprese e Comuni.
È sufficiente? No, non è sufficiente. Sono gocce nel mare? Sì, sono gocce nel mare. Infatti se ne lamentano sia gli imprenditori, sia i lavoratori, sia i consumatori, sia la Confindustria, sia gli esercenti, sia i sindacati, ma non indicano le coperture.Senza coperture certe non si va oltre senza riportare il deficit sopra il 3 per cento facendo riaprire la procedura di infrazione con relativo aumento del tasso di rendimento dei titoli di Stato.
Quel tasso è largamente diminuito e fin quando resterà sotto il 5 per cento (adesso è al 4,5 per i Btp decennali) è prevedibile nel 2014 un avanzo di due miliardi. Forse ha destinato le poche risorse che aveva su una platea di beneficiari troppo estesa. Può ridurla quella platea, aumentando gli incentivi ai consumatori e alle imprese. Altri strumenti non ci sono in Italia, perciò il terreno sul quale combattere non è soltanto l’Italia ma soprattutto l’Europa. Cambiare la politica europea per quel tanto che basti ad agganciare l’economia italiana a quella dell’Europa che ancora “tira”, anche se meno dell’anno scorso.
Il governo ha, allo stato attuale, il solo sostegno del Quirinale il quale, non a caso, è oggetto di continue critiche e addirittura insulti. Urlati o sussurrati o taciuti ma affioranti sotto la superficie del silenzio.
Chi critica l’intervento di Napolitano sulla legge elettorale sostenendolo un’incauta forzatura dei suoi poteri dimentica (vuole dimenticare) due circostanze: la legge elettorale attuale è ritenuta incostituzionale da parte della Corte che sta per emettere una sentenza in proposito. Questo tema dell’incostituzionalità riguarda direttamente il Capo dello Stato come tutto ciò che attiene alla Costituzione. Ma c’è di più: fino a quando il Senato sarà un duplicato della Camera, possono formarsi – come è attualmente – maggioranze diverse nelle due Camere rendendo il Parlamento ingovernabile.
Occorre quindi togliere al Senato i poteri della fiducia al governo e riservarli soltanto alla Camera dei deputati, come avviene in tutti gli altri Paesi europei. Ecco perché non c’è alcuna forzatura dell’intervento di Napolitano. Deve restare sopra le parti e sopra le parti è sempre rimasto.
Grillo minaccia l’impeachment. Sarei lieto che lo proponesse, si vedrebbe così la sua assoluta inconsistenza e il suo intento soltanto provocatorio. E si vedrebbe – ma questo è già del tutto palese – che finora i deputati Cinque stelle studiano e sono pieni di volontà del fare ma non sanno sottrarsi agli ordini dei due proprietari di quel movimento che ora si presenteranno alle elezioni europee sulle stesse posizioni della Lega separatista francese guidata dalla figlia del fondatore, su posizioni nazionaliste, antieuro, anti-Europa federale. Posizioni di destra estrema, con i pericoli tremendi che ne conseguono.
Gli elettori italiani lo seguiranno? Spero di no, ma non ne sono affatto convinto. L’Europa non va bene così, ma un medico curante come il grillismo la porterebbe a rapida sepoltura e con essa, naturalmente, anche noi.
La Repubblica 27.10.13