La Rai manda in onda lunedì e martedì la miniserie «Adriano Olivetti – La forza di un sogno», dedicata all’avventura industriale, politica e culturale di un grande imprenditore italiano. L’Olivetti è scomparsa da anni, non c’è nemmeno più il suo nome sul listino di Borsa perché è stata assorbita da Telecom in uno dei tanti artifici finanziari dell’ultimo decennio.Non sappiamo se Luca Zingaretti è l’attore giusto e se sarà un successo, ma potrebbe essere l’occasione per consolarci di tutte le disgrazie che l’industria ha vissuto e vive, non solo per la recessione e altre minacce planetarie, ma anche per le nostre responsabilità, per i nostri ritardi, per la mancanza di coraggio, di uomini, di innovazione.
Anche se il rumore della politica, dalle sorti di Alfano alla campagna delle primarie del Pd, sovrasta tutto, non si può trascurare quella che oggi appare come una nuova emergenza economica e sociale. Proprio mentre ci illudiamo che il prossimo anno si possa finalmente manifestare una ripresina, mentre il governo mette in campo una legge di Stabilità che dovrebbe accompagnare, nelle sue intenzioni, il percorso di uscita dalla crisi, il motore economico del Paese, cioè l’industria, è ancora inceppato, si muove a stento, soffre. Si salvano in pochi, soprattutto quelli che fanno ricerca, innovazione e vendono all’estero. Il nostro autunno industriale si manifesta nelle ripetute strategie di ristrutturazione che imprese italiane e multinazionali annunciano per fronteggiare ulteriori cadute di mercato e per difendere i margini di profitto a costo di duri prezzi che naturalmente vengono fatti pagare ai lavoratori.
Grandi campioni nazionali, anzi ex a que- sto punto, come Telecom e Alitalia stanno vivendo momenti drammatici, tra scontri di azionisti, mancanza di fondi, ricerca di nuovi alleati e strategie. Se ne è parlato a lungo e ancora se ne parlerà. Forse ci tocca rimpiangere l’amata Sip, magari sognare la vecchia Alitalia che poteva comprarsi la Klm. No, non ne vale la pena guardare indietro. Ci facciamo solo del male. Però bisogna allargare lo sguardo per comprendere la fragilità di un tessuto industriale che, pur restando tra i primi nella manifattura europea, prende colpi ogni giorno, tutti i giorni, come ci fosse un disegno distruttivo che si alimenta certo del- la crisi, della nuova competizione internazionale, ma anche della latitanza, degli errori tutti nostri. Ieri la multinazionale svedese Electrolux ha annunciato una «revisione» delle sue attività produttive nel mondo: in sintesi vuol dire che almeno duemila perso- ne saranno licenziate, che i quattro stabilimenti italiani verranno messi sotto esame e probabilmente qualche centinaio di operai sarà sacrificato per migliorare l’attitudine competitiva degli impianti. Gli svedesi si presero la Zanussi trent’anni fa perchè anche allora non reggeva la vecchia formula del capitalismo familiare tricolore. Ma noi italiani siamo sempre stati dei campioni nell’industria del bianco. Electrolux ha fatto affari d’oro. Così come la Whirpool che ha capito il valore culturale, oltre che industriale, di ave- re la sede europea a Varese dove trionfava il cavalier Borghi della Ignis. Più in giù, a Fabriano, la Indesit taglia almeno mille operai mentre i dipendenti della Antonio Merloni non sanno più che santo pregare per assicurarsi un futuro minimo. Poi ci sarebbero i seicento esuberi della multinazionale Alca- tel Lucent nella Silicon valley di Vimercate e Brianza, dove anche la grande Stm dei microprocessori annuncia ristrutturazioni e tagli.
Se uno trovasse il coraggio bisognerebbe parlare dell’auto, la nostra industria, la Fiat e tutto il resto, l’indotto meccanico, il design, i progettisti, le fabbriche e gli operai. Una classe dirigente responsabile, in un Paese normale, ieri avrebbe preso in mano la pagi- na del Sole-24 Ore che annunciava la seguente notizia: «Auto, la produzione ai livelli del 1958». Avrebbe lanciato l’allarme, convoca- to gli stati generali dell’economia, magari avrebbe chiamato Sergio Marchionne per un caffè e uno scambio di idee. Al tavolo del ministro Zanonato, invece, la Fiat ha mandato un ex dirigente pensionato. Capito che aria tira? Di che cosa stiamo parlando? Di «Fabbrica Italia», delle balle di Marchionne? Quest’anno la produzione complessiva di tutte le fabbriche italiane sarà inferiore alle 400mila auto, il solo stabilimento Nissan di Sunderland ne produrrà circa il doppio. La Spagna, con una semplice politica di incentivi all’insediamento e un piano di trasporti finanziato dalla Bei, ha creato un’industria dell’auto con una produzione di 2,4 milioni di unità nel 2014. E noi? Zero. Il nostro modello industriale è rimasto ancorato prevalentemente al taglio dei costi, alla compressione dei diritti dei lavoratori, non potendo più contare sulle svalutazioni competitive. Aveva ragione la Cgil quando, oltre dieci anni fa, iniziò a segnalare il pericolo del declino. E adesso? Letta si era insediato a palazzo Chigi annunciando di voler guidare il governo della politica industriale. Si è visto poco. Bisogna fare delle scelte profonde, radicali. Obama ha riportato su il Pil americano con l’abbattimento del cuneo fiscale e lo sviluppo dello shale gas. In tutti i Paesi, a partire dalla Germania e dalla Francia, lavoro e industria sono le priorità. È urgente una svolta nelle scelte politiche ed economiche finalizzate alla crescita e all’occupazione, una svolta anche culturale. Un noto economista italiano sta ultimando un libro in cui propone di tornare in fabbrica, alla centralità della produzione e del lavoro per salvare il Paese. È una bella idea. Almeno proviamoci.
L’Unità 26.10.14