Sarà mai possibile in questo nostro Paese aprire una discussione su un argomento – mettiamo, non a caso, l’emergenza carceri – e discutere del merito di quel problema e non aprire una rissa su un aspetto eventuale e marginale di quella questione? Per poi risolvere tutto nel nulla, dimenticarsi il fondo di quell’emergenza, naturalmente non risolverla e passare a una nuova emergenza purché si possa trasformare al più presto in rissa?
No, non pare possibile. Abbiamo citato le carceri non a caso perché sono l’esempio più recente e più plastico di questo fenomeno tutto italiano.
Il sistema penitenziario italiano è una vergogna, l’Italia rischia di subire l’onta di una condanna europea – ma la si potrebbe semplicemente definire una condanna «di civiltà» – per lo stato delle nostre carceri, un inferno dove esseri umani sono costretti a vivere in un metro e mezzo quadrato, in un supplizio inimmaginabile e feroce che si perpetua quotidianamente.
Quanto se n’è parlato quando il Presidente della Repubblica ha messo il Parlamento e il sistema politico di fronte a una responsabilità come questa? Un giorno, due. Ma subito la rissa politica è diventata il retropensiero per cercare di capire se in quel messaggio era nascosto come in un cilindro un salvacondotto per il pregiudicato Berlusconi Silvio. Legittime le polemiche politiche, ma i sessantamila esseri umani galeotti in uno spazio dove ce ne starebbero stretti 40 mila? Dimenticati.
Ecco, questo è diventato il discorso pubblico italiano, che si tratti dei funerali di Priebke dove il grottesco ha superato l’indecente, o del comico Crozza e del suo passaggio alla Rai. Nessun serio dibattito sulla memoria in un caso, nessuna considerazione approfondita sul mercato televisivo nell’altro. Viviamo di flash emozionali, sia che si tratti del caso Shalabaieva, la moglie dell’oligarca-dissidente kazako, prelevata insieme con la figlia bambina dalla casa affittata a Roma e spedita nel giro di poche ore ad Alma-Ata su richiesta del regime petrolifero di Nazarbayev. Ricordate? A giugno sembrava diventato il caso diplomatico più imbarazzante per l’Italia. E ora?
Infinite emergenze dettate dalla cronaca sono terminate senza che mai si sia arrivati nemmeno a sfiorare i problemi che pure avevano fatto emergere, che fossero i sassi lanciati dai viadotti sulle autostrade o l’aggressività mordace dei pitbull, ogni problema che compare nella nostra società finisce in una centrifuga emotiva che si alimenta di rancori, magari indefiniti, ma vivi, sempre partigiani. L’interesse generale – o nazionale – è un concetto sconosciuto. Il sospetto è generalizzato, ogni affare sa di mafia, ogni presa di posizione è sospetta di corruzione, c’ è sempre un secondo fine o un «vero» motivo di un certo atto che si nasconde dietro quello ufficiale.
Ne siamo tutti responsabili, inutile tentare di sottrarsi. È una specie di malattia, siamo diventati impermeabili a una discussione che regga lo spazio di qualche ora, siamo al tempo stesso spacciatori e consumatori di falene che non depositano la consapevolezza dei problemi e dunque non possono generare la ricerca di soluzioni. Non crediamo nemmeno più che sia possibile trovarle le soluzioni. Siamo delusi e disillusi. La politica è lo specchio di questo stato d’animo nazionale. Chi cerca compromessi (che poi costituiscono l’essenza della politica) viene accusato di inciuci con l’avversario, chi lavora intorno a soluzioni complesse per problemi che forse non sono mai stati così complessi viene deriso.
I populismi, in Italia e nel resto dell’Europa, nascono anche da questa insofferenza figlia del nostro tempo. È un po’ banale e come al solito si rischia di apparire esterofili a dire che non dappertutto è così e che anche laddove il populismo sta raccogliendo consensi, c’è un discorso pubblico che resiste, un’idea di realtà e di problemi condivisa. In questi giorni il giornalista francese Philippe Ridet, corrispondente di Le Monde a Roma dal 2008, ha pubblicato il suo libro di osservazioni sulla vita italiana. All’inizio vi si legge una citazione che colpisce. Al momento di prendere possesso della nuova sede, sulla sua scrivania ha trovato un biglietto del suo predecessore che diceva così: «Dopo cinque anni lascio un paese nello stesso stato in cui l’ho trovato». Ecco.
La Stampa 24.10.13